ALBERTO SORDI: IL GRAN TOUR DI UN ITALIANO PICCOLO PICCOLO

CINECRITICA n. 37 ( gennaio-marzo 2005)

ALBERTO SORDI: “IL GRAN TOUR DI UN ITALIANO PICCOLO PICCOLO”

Tra i molti miti della moderna società di massa, ve n’è uno dal destino particolarmente fortunato, quello del viaggio, che permette al singolo di scoprire nuovi mondi, nella speranza, forse utopica, di allargare i propri orizzonti culturali. Egli si sorprende, si emoziona nel compiere uno spostamento, limitato nel tempo, dai luoghi della propria quotidianità a quelli più esotici e comunque diversi, un tempo ritenuti irraggiungibili.

Nel cinema italiano, egli ha senz’altro un volto, una maschera, quella di Alberto Sordi, l’attore-regista che alla sua prima regia, Fumo di Londra 1966, compie il primo di una serie di viaggi (in opere girate da altri registi come Alberto Lattuada, Mafioso, 1962 o Nanni Loy, Detenuto in attesa di giudizio, 1971, che si trasformano in veri e propri incubi, nei quali l’attore romano traccia un preciso e vario diagramma comportamentale nel quale convergono i tic, le manie e le aspirazioni del nostro italiano piccolo-borghese, alle prese con realtà che di volta in volta cambiano latitudini, dunque trasformandosi in altrettanti luoghi comuni, territori di conquista, o se si vuole, contenitori di segni, la cui decifrazione è affidata allo zelo ma anche alla mente del nostro personaggio-viaggiatore. Ma già in Un americano a Roma, 1954 di Steno, vi è in nuce, al di là del semplice culto di un’America tutto sommato ancora “lontana” e dunque mitizzabile, il senso tutto sordiano, come si comprenderà in seguito, dello sconfinamento dai propri limiti geografico-culturali, per riaffermare tuttavia, prepotentemente quelli che sono i valori occidentali del comune borghese. In questo risiede l’autentico paradosso dell’attore italiano.

Ci troviamo pertanto di fronte ad un itinerario culturale diametralmente opposto, sia ai codici del cosiddetto “grand tour” storico (costituito essenzialmente da letterati stranieri), che a quelli del viaggiatore colto contemporaneo; quello che il cinema ci suggerisce, è invece il modello tipico che sta alla base del turista di massa. Massificato, proprio nell’idea di essere egli stesso artefice di un’azione-esperienza irripetibile.

Inghilterra e Africa, nell’immaginario dell’attore romano, sono i termini assoluti di comparazione tra il mondo “altro” e il proprio, ossia l’insieme di consuetudini, di vizi, di virtù “nazionali” che chiamiamo Italia. All’origine di qualsivoglia confronto con altre culture, vi è la consapevolezza della superiorità della propria. In altre parole, si parte per ritornare; il viaggio esiste proprio nella verifica dell’idea che viviamo nel “migliore dei mondi possibili”; il piacere e la gioia del “ritorno a casa”, da sola giustifica la fatica dello spostamento-spaesamento. Ma vediamo innanzitutto che cosa accade quando esso diviene l’idea stessa del viaggio, il motore principale, ossia l’origine del desiderio di movimento. In tal senso è possibile intendere il mito di Ulisse come un intermezzo illusorio tra due poli che rappresentano una semplice verità, il passato e il futuro, ovvero il focolare domestico.

In “Mafioso”, film scritto da due maestri dello humor nero, Rafael Azcona e Marco Ferreri, la riscoperta, da parte di un siciliano che vive al nord (caporeparto in una grande fabbrica torinese) della propria terra d’origine, (viaggiando, prima in treno e poi in automobile, con moglie e figli), avviene anche attraverso la verifica dello stretto legame d’appartenenza e di fedeltà a quel mondo siciliano di provincia, intriso di umori mafiosi, che lo condurrà a compiere un nuovo viaggio, diverso da qualsiasi altro, nel quale egli non è che un semplice oggetto, un pacco postale umano catapultato in quell’America (Nuova York, secondo la dicitura ancora in uso negli anni sessanta) risplendente di una grandiosità verticale, tanto più sognata da ogni italiano, quanto assai poco compresa nelle proprie contraddizioni. Più oggetto che soggetto di un tour che ha come fine un omicidio, il nostro caporeparto si ritrova improvvisamente protagonista e al tempo stesso gregario, di un crimine mafioso, e grazie al quale, paradossalmente, egli avrà “viaggiato in America”, ammirato i grattacieli di Manhattan e ne avrà assaporato il mito, così come, sullo stretto di Messina, resta incantato di fronte allo spettacolo magnifico della grande isola siciliana, terra di miti, che odora di limoni e di zagare. Nell’uomo “civilizzato” di massa, le sirene sono sostituite dagli stereotipi sulla bellezza; nel film questi vengono in un solo colpo, polverizzati sotto il peso del rimorso e dell’assurdo.

Ma nel vero finale, il piccolo uomo ritorna al suo posto nella grande fabbrica del nord, pronto a recitare la parte del perfetto lavoratore integrato nel sistema produttivo.

Nel film “Detenuto in attesa di giudizio”, Sordi è un geometra italiano che da anni risiede a Norkopping, in Svezia. Egli parte con la famiglia per una vacanza in Italia ma il suo ritorno viene misteriosamente interrotto alla frontiera italiana. Arrestato con l’accusa di omicidio (avrebbe ucciso un operaio tedesco), subirà un lungo calvario da un carcere all’altro della penisola, oltre ad una breve sosta in un manicomio criminale, fino al giorno in cui verrà riconosciuto innocente.

Ancora uno psicodramma individuale per questo italiano piccolo piccolo, che al labirinto kafkiano della giustizia e della detenzione, al calvario dell’umiliazione fisica e morale, risponde mettendosi a disposizione della legge, sottomettendosi ai più forti, finchè il caso, o meglio, l’equivoco non verrà del tutto chiarito. A fronte di un’Italia apparentemente indecifrabile (ma al regista interessano più i risvolti umani dell’assurdo, che non i suoi stessi meccanismi all’interno di un’istituzione come la giustizia), dove non sono più garantiti i diritti dei cittadini, emerge in filigrana il mito (tutto italiano) di una Svezia socialista, dinamica e civile, segnata dal binomio ricchezza-equità, (mito che si infrangerà alcuni decenni più tardi con l’omicidio del premier socialista Olof Palme).

Lette nel loro sviluppo simmetrico, entrambe le storie mostrano una sorta di contrappasso secondo il quale all’uomo che fonda il proprio ragionamento sulla forza e sull’evidenza degli stereotipi, restando alla superficie delle cose, è imposto lo psicodramma appunto della “fine dell’innocenza” e conseguentemente della presa di coscienza dell’assurdo quotidiano che, per sua specifica natura, travalica i confini nazionali. Il film di Loy, posto a confronto con il precedente Il diavolo, 1963 di Gianluigi Polidoro, sembra ancor più lo psicodramma di un ex seduttore italiota, in trasferta nella tanto sognata Svezia, “dove il sogno mediterraneo si avvera quasi sempre”, redento e dunque ormai felicemente e borghesemente sposato (con una svedese!), che finisce per dover constatare sia pur in ritardo rispetto alla sua primitiva stupidità, che al mondo esiste anche il problema della giustizia e dei diritti umani dei cittadini, indipendentemente dalla nazionalità e da qualsiasi altra appartenenza. Ne In viaggio con papà, 1982, il nostro, tuttavia si rimette i panni del seduttore, ma questa volta di un seduttore patetico e senile, alle prese con un figlio timido e a suo dire incapace di essere veramente un uomo. E’ la trasmissione dell’ideologia maschilista di padre in figlio, ghiotta occasione per alimentare quella tradizione di gallismo italico di cui tanto ha abbondato certo cinema italiano.

Londra e Africa, luoghi fisici e mentali lontani anni luce fra loro, sia pur con modalità diverse, diventano altrettante occasioni di ammirazione e di stupore, unite all’orgoglio di “esserci”, sentimenti che tuttavia non scalfiscono mai, nei due esempi che qui riportiamo, la weltanshaung del personaggio, la sua idea di spazi e di luoghi. Egli piuttosto si limita ad inserirsi nel flusso delle idee correnti, nella generale euforia verso il pianeta Londra che in quel preciso momento, siamo nel 1963, stava vivendo la sua età magica, la cosiddetta “swinging London”. Tutto il mondo puntò lo sguardo sulla Londra dei Beatles e dei “capelloni”. Una rivoluzione nel costume giovanile o se si vuole la sua reinvenzione in chiave europea. Sordi ne capta gli umori e soprattutto il colore; “Fumo di Londra”, altri non è che la memoria di un turista di massa, orgoglioso di esserlo, preso nel vortice degli eventi e delle figure di sfondo, semplici comparse di un mondo che egli fatica a comprendere e del quale riesce a cogliere solamente il lato effimero.

Sia che si trovi davanti le cascate del duca di Bragança in Africa, di fronte al cambio della guardia a Buckingham Palace, o ad un castello nella campagna inglese, egli si mostra incantato, incapace tuttavia di distinguere, di storicizzare tutto ciò che eccezionalmente si pone di fronte al suo sguardo.

Nel film tuttavia si assiste ad un meccanismo opposto a quello della cosiddetta differenziazione del turista, bensì a quello d’identificazione con il proprio oggetto del desiderio: essere un inglese. Ma già questo presuppone una sorta di spiazzamento rispetto allo sguardo critico sulla realtà. Nel duplice travestimento dell’attore-antiquario, che consiste nell’essere prima un perfetto gentleman della City e successivamente un beat con tanto di parrucca bionda e foulard al collo, viene pressoché affermato il principio di non identità individuale. Pertanto, una certa idea di italianità viene affermandosi proprio attraverso la sua negazione, proprio laddove il travestimento risulta meno efficace o, al contrario, egli è costretto, di fronte all’aristocrazia inglese (nella sua specie più caricaturale e truffaldina), ad essere un quasi perfetto italiano blasonato. Da questa giostra di segni opposti, (ma potremmo anche dire di rocambolesche avventure), il nostro personaggio esce letteralmente con le ossa rotte, spiazzato e confuso da una realtà che non riesce a comprendere proprio nella sua apparente doppiezza, poiché in fondo, non è che un turista che viaggia portando con sé un bagaglio di pregiudizi difficili o forse impossibili da sradicare.

Nel film di Ettore Scola, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, 1968 invece, il cosiddetto “mal d’Africa”, diviene una sorta di miraggio entro uno schema di viaggio, anch’esso orientato verso la messa in gioco di tutti gli stereotipi del genere. La maschera dell’attore sovrasta, gigioneggia privando il personaggio interpretato della propria autonomia, un ricco editore romano, appartenente di fatto alla classe alto-borghese. Sebbene il personaggio si sforzi di apparire un autentico viaggiatore in cerca del cognato scomparso, tuttavia egli non fa che riprodurne la caricatura. Ciò è evidente innanzitutto nella scelta degli indumenti da esploratore coloniale dell’editor Di Salvo, sorta di travestimento kitsch che al suo arrivo in Angola viene beffardamente videoripreso da un abitante del luogo. Inoltre i suoi modi apparentemente educati, le citazioni colte imparate a memoria e taluni comportamenti per così dire civili con i nativi, vengono puntualmente contraddetti dal rapporto di superiorità di classe che egli intrattiene durante tutto l’itinerario con il suo ragioniere, voluto come compagno di viaggio, sorta di proiezione delle abitudini originarie (leggibili come la riproposizione del già noto), in uno spazio che alterna monotonamente insidie e meraviglie, colpi di scena inverosimili a corveè comuni ad ogni viaggiatore, il cui fine è, lo abbiamo già detto, quello del ritorno a casa, paragonabile per intensità solamente al desiderio di evasione che non è il suo esatto contrario, ma assolutamente complementare. La geografia reale e immaginaria dell’uomo-massa, travestito da viaggiatore borghese, non si comprenderebbe senza tale evidenza.

A tale proposito un film come “Bello, onesto, emigrato in Australia, sposerebbe compaesana illibata,1972,di Luigi Zampa, coniugando camerinianamente la vitalità italica con il dramma sociale dell’immigrazione, risulterebbe piuttosto un vero spaesamento per così dire, domestico rispetto al Sordi viaggiatore in luoghi esotici ma al tempo stesso insidiosi. Al contrario in un altro film, sua terza regia, Finchè c’è guerra c’è speranza, 1974, si ha l’esatta conferma di quanto affermato, ossia la rappresentazione e la giustificazione dell’essenza piccolo borghese In tal senso la sostanziale mediocrità del film non impedisce di leggervi in maniera esemplare la stessa mediocrità del suo personaggio, mediocre appunto tra i mediocri, lupo tra i lupi. Se lo scenario iniziale è uno scorcio di deserto e di villaggio sahariano (il protagonista venditore d’armi seduto su un cammello, a soddisfare la sete di esotismo e di esterofilia dell’autore), è la duplice dimensione spazio-temporale di Italia e Angola, la vera chiave per comprendere la dialettica familiare e sociale che sta alla base del pensiero-azione del conformista piccolo borghese impersonato dall’attore romano. Davvero esemplare in tal senso la sequenza ambientata in un piccolo parlamento africano. Si discute se usare il poco denaro esistente per fare la guerra o per sfamare il popolo. Il nostro personaggio fino all’ultimo spera che si scelgano le armi e alla fine viene premiato. Egli si picca di essere il miglior mercante d’armi sulla piazza. In realtà è un semplice commesso viaggiatore, tipico prodotto degli anni sessanta, convinto che non c’è limite al bisogno di denaro, che inoltre il denaro non conosce né colore politico né morale. La sua avidità lo conduce perfino a raggiungere il villaggio sperduto nella selva dei guerriglieri per la liberazione dell’Angola, accompagnato da un giornalista di sinistra (quando si temeva che il Corriere virasse a sinistra, l’epoca in cui il fuoriuscito Montanelli fondò il Giornale).Un dettaglio all’apparenza trascurabile che tuttavia rivela la temperie conservatrice del regista-attore. Ciò che avviene successivamente si commenta da sé. Ma proviamo a ricordarlo: lunga sequenza in cui i governativi bombardano il villaggio in seguito al fatto che il nostro mercante d’armi è stato pedinato. Si indulge su dettagli realistici raccapriccianti entro una dimensione che dovrebbe essere piuttosto di una farsa. Qui evidentemente Sordi si diverte a giocare con la guerra dopo avere giocato con la geografia e con la cronaca, consegnandoci immagini moralmente discutibili che diventano pura pornografia se confrontate con la sequenza successiva, girata nella quieta borghese e ipocrita di un residence del comasco (precisamente la Pineta di Appiano Gentile) dove lo attende la triste e imbarazzante sorpresa della verità, ossia lo pseudo processo inscenato dalla famiglia (moglie, figli avidi di benessere) che per una semplice casualità (una foto pubblicata appunto sul Corriere), scopre che egli non è che un “mercante di morte”. A sua volta è lui stesso ad inscenare la propria difesa accusando con veemenza loro stessi, con la loro ingordigia, di essere i responsabili delle guerre che si combattono nel mondo, “perché se si vuole la ricchezza, qualcuno bisogna pure depredare”. Oggi come ieri diremmo senza esitazione i popoli del sud del mondo. Ma questa illusione di presa di coscienza del borghese piccolo piccolo ha la durata di un riposino: non appena egli avrà compreso che la famiglia avrà trasformato in cenere qualsiasi resistenza morale, sarà pronto a riprendere il suo in fondo onesto mestiere di venditore di morte. Dopotutto, oggi direbbero in molti, cosa conta un articolo denigratorio su un giornale di sinistra? E’ la morale del branco più ottusa ed in fondo debole veramente incarnata nel nostro personaggio.

Egli, infine, qualunque siano le modalità o le latitudini dei suoi viaggi, risulta uno sconfitto. Perennemente indietro rispetto alla Storia, alla cronaca e ai suoi stessi tentativi di avvicinamento a un’idea di civiltà che pur tuttavia continua a sfuggirgli in quanto egli persegue esclusivamente il soddisfacimento dei propri desideri, e dunque la bellezza, la giustizia e la comprensione del mondo, semmai esistano, lo sono solo in quanto egli stesso esiste non nella funzione di soggetto, ma di colui che testimonia l’esistenza degli altri.

 

Film citati o analizzati nel saggio:

Fumo di Londra di Alberto Sordi

Il diavolo di Gianluigi Polidoro

Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy

Mafioso di Alberto Lattuada

Un americano a Roma di Steno

Finchè c’è guerra c’è speranza di Alberto Sordi

Bello, onesto emigrato in Australia, cercherebbe compaesana illibata di Luigi Zampa

Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? di Ettore Scola

In viaggio con papà di Alberto Sordi