IL CINEMA E IL SOGNO GITANO. ANCHE GLI ZINGARI VANNO IN CIELO

CINECRITICA n. 15 (luglio-settembre 1999)

IL CINEMA E IL SOGNO GITANO. ANCHE GLI ZINGARI VANNO IN CIELO

 

Mi sono seduto

In un vuoto del tempo.

Era uno stagno,

di silenzio,

di un bianco silenzio,

anello formidabile

dove le stelle

scontravano i dodici

numeri neri galleggianti

Federico Garcia Lorca da “Romancero gitano”

Rannicchiato in cima ad un armadio il gatto bianco “copre” allegramente il gatto nero. Il candore, l’innocenza del popolo gitano prevale sulla cattiva sorte e sulla maldicenza. L’allegra follia “va in culo” alla morte. In questo fotogramma è contenuta la semplice lezione morale di Emir Kusturica, regista bosniaco di origine musulmana e dal destino apolide. “Gatto nero, gatto bianco” (Black cat, white cat-1998) chiude il cerchio di una paternità culturale, di una realtà che guarda ormai solo a se stessa, dentro lo specchio della propria follia rigeneratrice di visioni, della propria irrazionalità, ma al contempo ripiegata sul proprio destino, che è quello di una lenta, inesorabile, emarginazione. Chi non s’integra resta una creatura poetica, una di quelle stralunate figure che nel cinema felliniano provenivano dalla fantasia di un caricaturista di genio. Ma in fondo che cosa rappresenta il mondo gitano nell’immaginario filmico contemporaneo se non il germe perduto della genialità, del talento naturale e dell’improvvisazione? Oppure la sola risposta possibile alla grigia uniformità della società dell’ex socialismo reale, di cui il popolo gitano di bizzarri suonatori, di ladri, di indovine, di prostitute e di madri dal cuore grande, non è che l’eccezione alla regola, il confine oltrepassato della fantasia, della marginalità intesa come diversità e non-appartenenza al potere della logica, della progressione numerica, della distruzione sistematica?

Ma una sequenza rappresentativa di un film di Renè Clement (“La corsa della lepre attraverso i campi” (La course du lièvrè à travers les champs-1972) coglie perfettamente il senso di esclusione e di diversità dell'”altro mondo”, e della sua possibile distruzione come un atto casuale, irresponsabile (ben espresso con la metafora dell’incidente), e per altro verso la reazione-persecuzione degli uni (le vittime, i gitani) contro il loro “nemico”.

Il film di Clement è altresì la testimonianza dell’incompatibilità tra due mondi, del loro reciproco antagonismo, ancor più di quanto non sia espresso né “Un’anima divisa in due” (1996) di Silvio Soldini. In questo film il tono minimalista della narrazione finisce con l’appiattire le differenze e i contrasti tra i due personaggi. L’uniformità del discorso filmico nega qualsiasi progressione dialettica il cui segno risulta essere piuttosto debole. Ciò che più sorprende nel film di Soldini è il fatto che la separazione tra il commesso e la giovane rom non sembra determinato da semplici differenze etnico culturali, ma da una più generale condizione di incomprensione tra i sessi. In tal senso Soldini semplifica il discorso antropologico avanzando però un’ipotesi esistenziale più profonda sulla linea di un cinema (il suo) di silenzi e di mezzi toni. Nello stesso anno in cui apparve il film di Soldini, un’altra opera italiana affrontava da una diversa angolazione il problema dei gitani. “Allullo drom” (1993) di Tonino Zangardi con il film di Soldini condivide l’incontro-confronto con il diverso, ma se in quest’ultimo esso si basa essenzialmente sullo scambio amoroso tra due esseri che non si comprendono, in “Allullo drom” la storia d’amore tra il giovane zingaro Andrea e la giovane Lorenza che vive in un paesino della Toscana risulta essere l’atto finale di un confronto che sul piano descrittivo e semidocumentaristico avrebbe dovuto mantenere fino in fondo un carattere di documento antropologico anziché sconfinare appunto in una inutile storia d’amore.

Né “La corsa della lepre attraverso i campi” l’approccio alla “questione gitana” può essere suddiviso in varie fasi progressive e distinte. Il film si snoda sul tema dell’esclusione: è il piccolo borghese francese (Trintignant) ad essere emarginato dal gruppo compatto di ragazzini gitani nella bellissima quanto emblematica sequenza delle biglie, che per taluni versi rimanda al tema dell’innocenza tradita di “Giochi proibiti” dello stesso Clement. Il ragazzo vuole giocare con loro mostrando le sue biglie colorate chiuse in un sacchetto di plastica, ma uno di essi con un coltello rompe il sacchetto sparpagliando le biglie per terra. Risuonano fuori campo le parole della madre: <<Se fai il cattivo bambino, gli zingari ti portano via.>>. Dunque lo zingaro come spauracchio e creatura marginale che ha stretto sin dai tempi più antichi un patto col diavolo (1). In un’altra sequenza-chiave del film, il medesimo ragazzino, da adulto, pretende di “catturare” l’immagine di una famiglia gitana dalla protettiva distanza di un velivolo, di cui è anche pilota, precipitando, in seguito a questa distrazione, sui loro corpi facendone involontariamente una strage. Da quel momento in poi il suo destino sarà legato a quello dei gitani. Nel movimentato epilogo l’uomo andrà incontro alla morte finendo “tra le braccia” dei suoi inseguitori, dei suoi giudici inesorabili, gli zingari, ai quali egli ha “rubato” sia l’immagine simulacro dell’anima, sia la stessa vita. Clement suggerisce una lettura pessimistica dell’incontro tra culture inconciliabili e finanche del tentativo di appropriazione “culturale” da parte dei “vincitori” attraverso immagini e fotogrammi “rubati”.

Nell’opera del regista francese di origine gitana, ma nato ad Algeri, Tony Gatlif un soggetto estraneo interagisce con quella cultura giungendo ad esiti differenti. Sia che esso agisca per ragioni di parentela (L’uomo perfetto, Les Princes-1982) o in modo del tutto casuale (Gadjo Dilo, lo straniero pazzo, Gadjo Dilo-1998), esso sarà in ogni caso l’elemento scatenante di un incontro-scontro con l’altro, il diverso che in modi affatto differenti suggerirà un percorso conoscitivo, una partecipazione, sia pure temporanea, a un mondo arcaico che continua, nonostante tutto, a sopravvivere. In tal senso ci appaiono illuminanti le parole dello scrittore Paul de Saint Victor, autore del testo “Hommes et dieux: <<…..Le sue carovane sollevano in mezzo a civiltà laboriose non so quale chimerico stendardo di svago e di libertà. Spesso l’immaginazione, stanca dei ceppi della vita sociale, prende le ali del sogno, per abbattersi sulle loro tende e arruolarsi nelle loro bande. Il giorno in cui scompariranno il mondo perderà non una virtù, ma una poesia.>> (2).

Nella lingua gitana la parola “gadjo” significa appunto straniero, ma non per questo indesiderato. Nel suggestivo “Gadjo dilo” ultimo film di Tony Gatlif, un giovane musicologo francese in viaggio in Romania alla ricerca di una cantante misteriosa dallo strano nome Nora Luca, si ritrova per caso in una comunità rom di un piccolo villaggio della Valacchia dove viene accolto come un vero ospite. Stephan compie un lungo viaggio (che non vediamo) da Occidente a Oriente d’Europa per incontrare la cantante misteriosa di cui possiede solamente la voce. Il tema del possesso virtuale (musicale o visivo) dell’anima gitana ci riconduce al paradosso del carnefice-vittima del film di Clement; tuttavia nel film di Gatlif la dissonanza tra l’essere e del non appartenere del protagonista trova una possibile risoluzione non tanto nell’idea di integrazione del “francese” nel villaggio dei lautari, quanto invece la progressiva presa di coscienza di una diversità che vive dei propri valori e contraddizioni. La tentazione di fuga al principio seduce la mente di Stephen, ma grazie alla mediazione di Isidor, il “buli basha”, cioè, il capo del villaggio, egli da ospite osservatore della realtà passerà ad essere parte integrante di essa. Così la ricerca di Nora Luca, ossia dell’immagine di una voce, diviene scoperta di un’unica, irresistibile voce collettiva, voce-paesaggio, voce-strumento dei lautari che cantano e ballano nelle feste e nei matrimoni, voce-morte di un giovane rom del villaggio che lui, lo straniero, percepisce come la fine di un ciclo, la fine dei suoni di quel piccolo, fantastico e terribile mondo che egli possiede. Il gesto definitivo di distruggere i nastri registrati, che avviene contemporaneamente alla distruzione del villaggio, segna il passaggio dalla ricerca dell’altro (della propria voce che si moltiplica nelle voci di un’intera collettività) alla scoperta che l’altro è dentro la propria anima. “Gadjo Dilo” conferma il talento di un regista che sembra ritrovare la propria ispirazione solo attraverso il “racconto” spoglio e rigorosamente realistico dei “suoi” lautari, sospesi nel limbo che separa l’essenza del fantastico da quella della più tormentata modernità.

Gatlif è autore di una sorta di trilogia zigana, comprendente oltre a “Gadjo dilo” l’opera d’esordio “L’uomo perfetto” e la successiva “Latcho drom” (1987), ancora inedito in Italia. Se nel primo film, per molti critici il suo più riuscito, egli metteva in scena il dramma dell’incomprensione e della separazione di una coppia mista, dove entrambi i soggetti difendono la propria diversità e appartenenza a culture incompatibili, radicalizzandone i comportamenti, nel secondo, invece, introduceva per la prima volta l’elemento musicale zigano (ripreso e sviluppato in “Gadjo Dilo”), non come semplice carattere di fondo, ma in funzione tematica di presa di coscienza di un elemento culturale autoctono.

In un paese come la Francia, segnata da una forte presenza, nel sud, della minoranza rom, il cinema di questo interessante autore testimonia l’esistenza di una dialettica artistica tra arte e società marginale, tra espressione autoctona e stilemi espressivi squisitamente europei..

Non appena giungiamo nel cuore “storico” e pulsante della cultura zingara, in quell’altra Europa segnata dal demone slavo e della costruzione del socialismo reale, il mondo stesso dei nomadi e dei marginali, degli ambulanti e dei suonatori di strada finisce per essere davvero una scheggia impazzita, un microcosmo caotico e fantastico e ancor più per il pubblico occidentale, sempre avido di esotismo (3), una sorta di variante arcaica del cosiddetto “genio slavo”.

Sino ad ora conosciamo tre forme diverse di approccio espressivo e narrativo al mondo dei gitani, al loro particolarissimo immaginario collettivo: quello mitico-favolistico e romantico (come apprendiamo dal dittico del cineasta moldavo Emil Lotjanu -1936), quello più sensibile alla prospettiva antropologica, unito a quello narrativo, che troviamo nell’opera di Aleksandar Petrovic (1929-1974) e infine quello coloratissimo, visionario, antinaturalistico del cinema di Emir Kusturica (1954), ossia tre generazioni di cineasti narratori dell’anima gitana.

Va detto innanzi tutto che ricostruire in immagini cinematografiche il microcosmo gitano significa riferirsi ad un mondo mitico, ai suoi riti e ai suoi fantasmi, ossia percorrere il tempo a ritroso (sebbene si parli quasi sempre del tempo presente), che è in realtà il tempo del sogno, della fantasia e del mito. Ad una specie di infanzia adulta dell’uomo e alle sue passioni e contraddizioni, su un preciso sfondo storico-geografico, sembra ispirarsi il film di Emil Lotjanu “I lautari” (Lautary-1972). Il processo di individuazione del Mito e della propria sistemazione temporale (l’ottocento moldavo-russo) è pienamente compiuto. Il viaggio di Tomas Alistar, violinista vagabondo attraverso la Russia, ha il tono epico-lirico della ballata popolare. Col suo eroe infelice e romantico, Lotjanu dà inizio ad un altro viaggio, quello dell’intellettuale e dell’artista moldavo alla scoperta delle fonti dell’ispirazione musicale di un popolo nomade, della sua mitologia e dei suoi simboli. Prima fra tutti la passione amorosa, inseparabile dall’ispirazione musicale che nel caso di Tomas Alistar fa compiere imprese straordinarie attraverso i villaggi. Il racconto di Tomas Alistar e della propria identità rom, in particolare manifesta attraverso la pratica musicale, si innesta sulla universalità di un tessuto narrativo che rimanda all’archetipo shakespeariano di Romeo e Giulietta, pur tuttavia scegliendo di adottare una sorta di andamento rapsodico. La separazione dalla donna amata, moldava perciò nemica, è per Tomas come un’iniziazione alla vita che necessariamente introduce il motivo del cosiddetto romanzo di formazione di un’adolescenza, di un musicista che diventato vecchio e pronto a morire, è rivissuta con lo spirito e il lirismo di un umanista slavo. Il regista moldavo chiude il cerchio della vita errabonda di Tomas con la morte, tuttavia facendone risorgere lo spirito della musica attraverso la figura del piccolo lautaro. Ma il film è altresì il poema visivo del destino che regola, come in una tragedia classica, le azioni di Tomas, la sua felicità, come l’infelicità, l’infinito desiderio d’amore che per sempre lo legherà a Lianka e il senso panico della natura, elemento che più di ogni altro salda con un filo invisibile il destino di Tomas al mistero della vita.

La vita dei gitani nell’immaginario filmico viene sempre presentata nei suoi aspetti sedentari, nella vita del villaggio, e le poche occasioni di viaggio sono perlopiù determinate dal tema dell’emigrazione, dell'”uscita nel mondo esterno”, come accade al personaggio di Perhan né “Il tempo dei gitani” (Dom za vesanje-1989) di Emir Kusturica. La romantica impresa di Tomas è dunque un’eccezione che appartiene, di fatto, al diciannovesimo secolo, ad un passato in cui il viaggio era un riflesso della sfera dell’esperienza, dell’avventura esistenziale. Il tono lirico e rapsodico, e l’andamento libero di ballata triste e scanzonata lontana dal mondo urbano del tempo, contribuiscono ad aumentare il distacco fra tradizione e modernità concentrando l’intera opera in un’aura molto vicina al clima della fiaba.

L’effetto di straniamento mitico cresce ancorché il sentimento musicale e di appartenenza alla comunità si trasforma in un irresistibile afflato amoroso che vorrebbe essere eterno, quasi come avviene nelle fiabe, e che scopriamo nel successivo “Anche gli zingari vanno in cielo” (Tabor uchodit v nebo-1976). In quest’opera Lotjanu sembra concentrarsi più sulle suggestioni del paesaggio e del mutare delle stagioni, sfondo ideale per la sua struggente storia d’amore, che sulla reale condizione dei lautari nella Russia che egli descrive in un eccesso di afflato lirico.

Nell’opera di questi autori vi è anche un altro carattere comune, collegato ad alcuni elementi autoctoni essenziali, che riguarda la presenza di un singolo personaggio-protagonista cui viene affidato un destino picaresco, drammatico, mai veramente tragico, fatta eccezione per quello di Perhan, ucciso a bruciapelo in un epilogo struggente ed insieme caotico, poiché il senso del tragico è già presente nella stessa condizione “storica” del popolo zingaro. Comunque si tratta pur sempre di un destino individuale condiviso, tuttavia, dal resto della comunità. Così è per Tomas, così è per Perhan o per il protagonista del film di Petrovic “Ho incontrato anche zingari felici” (Skupljaci perja. Sreo sam cak i srecne cigane-1967).

Se la quotidianità gitana si svolge intorno e dentro il villaggio, nei modesti riti magici, nella cura degli animali e nella crescita dei bambini che diventeranno un giorno come i padri o si sposeranno tra loro, è durante la cerimonia dei matrimoni e dei funerali (vita e morte ricondotte al medesimo segno) che si scatenano l’antico spirito orgiastico e il desiderio irrefrenabile di esorcizzare, scacciandola, l’antica paura dell’isolamento e dell’emarginazione.

E sull’ipotesi di un matrimonio non desiderato e della sua lenta preparazione e realizzazione (è il tempo del rito) è costruita la vicenda di “Gatto nero, gatto bianco” (1998), opera nella quale il mondo magico, bizzarro, rumoroso e fracassone, eppure saggio, della casa-villaggio “appoggiata” alla riva del Grande Fiume (il Danubio), sembra davvero opporsi non solo alle leggi degli uomini (nell’ostinato persistere di azioni scombinate, irrazionali e criminose), ma anche alla legge che regola la vita e la morte. Mentre si nasconde la morte del grande Vecchio (ma anche padre ingrato) e si celebra l’assurdo e indesiderato matrimonio tra il figlio e una ragazza quasi nana e d’aspetto sgradevole (da cui riemerge l’archetipo classico del matrimonio infelice imposto dall’alto), colui che è ormai creduto morto riappare tra i vivi, sbigottiti e increduli. L’antica tradizione rumena dei non-morti, dei vampiri, si trasmette ad un mondo che a quella cultura fu sempre vicino. Ma ciò che più colpisce è l’ironia con cui il regista sa muovere il vecchio padre, come un morto vivente tra un pittoresco esercito di sopravvissuti. Il mondo descritto da Kusturica si oppone perfino a se stesso, nel non volerne accettare la fine (la morte del patriarca equivale alla morte dell’idea stessa di comunità) e tra le mani del regista bosniaco esso diventa una sorprendente metafora del potere esercitato dalla fantasia sugli esseri umani e della fiction cinematografica che qui tuttavia ripiega su se stessa, nel proprio chiuso universo. Ciò che ne “Il tempo dei gitani” si manifestava come energia vitale, magica e rituale ad un tempo, straripante di umori e di invenzioni visive, in “Gatto nero, gatto bianco” risulta privo di quegli accordi segreti tra adolescenza e fantasia, tra violenza umana e vitalità primitiva. Non che Kusturica abbia inteso rinunciare a quello stile inconfondibilmente soggettivo, spinto all’eccesso e fluviale, col quale dare libero sfogo e spessore visivo all’incredibile vitalità irrazionale delle genti gitane, tuttavia viene meno l’originalità dell’ispirazione e l’intimo anello di congiunzione tra il tempo “statico” del villaggio e il soverchiante ritmo del resto del mondo.

Egli inoltre non sembra preoccuparsi affatto di emettere giudizi morali sulle derive di crudeltà e di violenza fratricida che sono parte del destino di un popolo sradicato dall’antica dignità e splendore. Al contrario Kusturica mostra apertamente un gusto ludico nella volontà di rimescolare le carte dell’ironia, della provocazione visiva, del kitsch e soprattutto del grande e generoso cuore gitano, allegro dispensatore di piroette e acrobazie col tempo e con lo spazio, tra la vita e la morte. Il suo è forse un gioco geniale che però rischia di trasformarsi in affresco ripetitivo, autoconsolatorio, e, in altre parole, in serena contemplazione di se stesso.

L’elemento magico né “Il tempo dei gitani” è la musica (Goran Bregovic), lo stesso nutrimento della realtà, colonna sonora dell’anima gitana. Nel linguaggio caotico e passionale di Perhan, fabbricatore di calce e grande ipnotizzatore, si precisa ulteriormente l’identità dell’adolescente alla scoperta del mondo, sino alle sue conseguenze più estreme, che aveva caratterizzato il protagonista del suo film d’esordio “Ti ricordi di Dolly Bell?” (1981) nella cui cifra stilistico-narrativa era implicita la lezione del realismo autobiografico-poetico delle Nouvelle Vague europee, e in particolar modo quella cecoslovacca. Imprigionare la realtà nel cerchio magico del fantastico per Kusturica significa legare il destino dei suoi personaggi, della loro follia a quello del resto dell’universo da cui Dio è scomparso e dove l’ironia più esilarante può trasformarsi in tragedia.

Dice Perhan prima di andare incontro alla morte: “Che cos’è uno zingaro senza sogni, è una chiesa senza tetto, una compagna muta.” Ma il finale spetta allo zio stralunato, il poeta, il poeta del niente, l’uomo che insegue i sogni senza mai trovarli (4).

Nella figura di Perhan Kusturica riunisce il dualismo di innocenza-corruzione, in uno sviluppo esistenziale unitario, fluido, facendo di lui il simbolo della corruttibilità del mondo gitano che sopravvive nei singoli individui e non nella sua antica anima collettiva. Dunque la verità zigana deposta nella cultura e nella tradizione può essere custodita soltanto da chi ne porta silenziosamente oppure causticamente il peso, lontano, comunque, dal denaro “macinato dal diavolo”.

Prima del picaresco e tragico ritratto delle genti rom fuori dalla terra d’origine de “Il tempo dei gitani” nessuno meglio di Dusan Makavejev aveva saputo descrivere lo sradicamento di quel popolo come in “Montenegro tango” (1981), commedia di umori sarcastici e feroci. A una borghese americana, stanca della comoda e inutile vita famigliare, capita accidentalmente di imbattersi in un gruppo di rom dai quali viene portata in un luogo chiamato Zanzibar, ossia distilleria abusiva, luogo reale e simbolico che come l’Exotica di Atom Egoyan vende il piacere nel momento in cui lo ritualizza. L’uso cosciente del kitsch culminante nella sequenza dello strip della ragazza rom alle prese con un carro armato telecomandato che al posto del cannone presenta un grosso pene di gomma, rovescia il significato dell’ipotetica violenza etnica in un senso puramente erotico ed eversivo, che tuttavia si ricollega al binomio amore-morte cui è legato il destino del giovane Montenegro, guardiano di zoo, ucciso dalla signora borghese dopo l’amplesso. Esiste un curioso parallelismo tra la condizione “emigre” del regista Makavejev e quella analoga dei suoi rom, con la fondamentale differenza che mentre egli guarda da straniero il mondo borghese occidentale col furore e il sarcasmo di colui che situa altrove le proprie radici, essi invece, nel loro insieme, del “mondo dei vincitori” non si curano affatto. Lo sguardo di Makavejev, infatti, prende “semplicemente” atto che costoro esistono e sono ciò che sono, mostrando i loro “eccessi” come un elemento, un dato di fatto accettato come tale, senza commento. Semmai ciò che interessa è la descrizione delle reazioni di un soggetto estraneo alla diversità di quel mondo, in altre parole, della voracità della protagonista femminile, ambiguamente intesa come ape regina o mantide distruttrice in senso ferreriano, o piuttosto come metafora di un ricco occidente (la donna è americana!) impazzito che per difendere il diritto alla propria follia divora i diversi e in seguito i propri simili.

Con il film di Aleksandar Petrovic, iniziatore della Nouvelle Vague jugoslava degli anni ’60, “Ho incontrato anche zingari felici”, più ancora che l’ideale seguito “Piove sul mio villaggio-Bice skoro propast sveta” (1969), il mondo zingaro conosce una lettura più meditata, attenta cioè agli elementi che ne costituiscono il fascino (la semplicità dei villaggi, la dispiegata coralità dei membri della comunità, la calma del paesaggio contrapposta alla vita chiassosa del villaggio) così come alle “gesta” del giovane protagonista, lo zingaro Bora (l’attore Bekim Fehmiu). Questi ha due mogli, ma per poter stare con entrambe sarà costretto ad uccidere il patrigno della più giovane e riesce a mettersi in salvo nascondendosi in un camion pieno di polli. Con raffinato realismo e con stile asciutto ed ellittico, in cui non manca un fondo di umorismo, Petrovic riannoda i fili di una vicenda umana, dove il destino del singolo, la sua malinconia e la sua allegria, è ancora inseparabile da quello di coloro che costituiscono e difendono la comunità.

Se nel cinema di Kusturica il mondo e il tempo dei gitani rappresentano le età dell’uomo (infanzia-adolescenza-maturità) legate dal comune denominatore dell’eccesso, della fantasia individuale, ma anche della sopravvivenza, per Aleksandar Petrovic essi testimoniano l’esatta condizione di un’esistenza coatta, umana e terribile proprio nella costante e affannosa ricerca di una impossibile convivenza tra identità propria e il binomio di violenza-seduzione voluto dal mondo esterno.

<<La civiltà industrializzata – secondo le parole profetiche di Jean de Lavigny – dove tutto è programmato e dove il singolo individuo è diventato parte di un complesso macchinario di cui non capisce il senso, sta per assorbire nel suo sistema anche il mondo degli zingari. E’ un altro aspetto arcaico del mondo che se ne va, lasciando dietro di sé soltanto residui archeologici che gli studiosi del futuro si affanneranno a decifrare e ad interpretare>>. (5)

Un discorso a parte merita forse l’incursione di un regista spagnolo eclettico come Carlos Saura nei territori della cultura gitana, che si caratterizza più in senso squisitamente coreografico che in senso realistico. In altre parole Saura compie un’operazione multimediale non già ispirata ad un approccio diretto a quel mondo, sia esso di fiction o in senso documentario, ma ad una precedente interpretazione, compiuta dal compositore spagnolo Manuel De Falla (1876-1946) nella forma aulica del balletto. Dunque il film, utilizzando un archetipo musicale per la ricostruzione di un clima immaginario, di un pathos d’amore e morte, di un rito magico, pagano, in forma di esorcismo, appartenenti ad un’agiografia letteraria piuttosto che ad un linguaggio della realtà e della sua trasfigurazione concreta, riesce infine a trasmettere quel senso di suggestiva e stilizzata irrealtà, così come esige la lente deformante dell’immaginario occidentale colto.

NOTE

1) <<Verso la fine del XVI secolo – scrive Jean De Lavigny – quando inizia il periodo aureo dei grandi processi delle streghe, anche per gli zingari cominciano i tempi duri. L’aria di mistero da cui si erano circondati originò, nei loro confronti, una serie di accuse infamanti, quelle stesse con le quali erano colpite e condannate le streghe. Oltre di normali relazioni col demonio, furono indiziati di rapimenti di bambini da sacrificare in certe loro ricorrenze, di cibarsi di carne umana, di praticare malefizi ai danni di potenti o di chi era loro ostile.>>Non a caso, dunque, nella mitologia vampirica, sono gli appartenenti a questa “razza maledetta”, cioè gli zingari, a scortare la bara del Conte Dracula (“El Conde Dracula” di Jesus Franco, 1972) dalla Transilvania all’Inghilterra.

2) François de Vaux de Foletier, Mille anni di Storia degli Zingari, pag. 257.

3) Si pensi all’uso “culto” che del materiale musicale gitano fecero noti compositori come Ferenc Liszt e Bela Bartok, oppure l’irresistibile fascino esercitato dal flamenco e dalle più profonde melodie del cante hondo sulla fantasia di registi spagnoli come Carlos Saura e Pedro Almodóvar.

4) Con questa bizzarra figura si completa il duplice ritratto della saggezza zigana affidata alla figura “mitica” della nonna, e pure esteso a quella del figlio buono a nulla, stralunato e vendicativo, come colui che è nato col destino avverso. Ma ciò che davvero lega due personaggi così diversi e antagonisti è proprio il loro essere dei perdenti.

5) Op. cit., pag. 85

 

BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Storie degli zingari, Milano, 1991

Bart Mc Dowell, Zingari vagabondi del mondo, Firenze 1989

Jean De Lavigny e Marino Corona, Popoli d’Europa e d’Africa, Ginevra 1977

Nebojsa Bato Tomasevic e Rasko Djuric, Zingari, Milano, 1989

François de Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Milano, 1978

Bertellini Giorgio, Kusturica, Castoro Cinema, Milano, 1998

FILMOGRAFIA

Clement René La corsa della lepre attraverso i campi (La course du lièvre à traves les champs-1972)

Gatlif Tony L’uomo perfetto (Les princes-1982)

Latcho drom (idem-1987)

Gadjo Dilo (idem-1997)

Kusturica Emir Il tempo dei gitani (Dom za vesanje-1989)

Gatto nero, gatto bianco (Black cat, white cat-1998)

Lotjanu Emil I lautari (Lautary-1972)

Anche gli zingari vanno in cielo (Tabor uchodit v nebo-1976)

Makavejev Dusan Montenegro tango-Perle e porci (Montenegro- 1981)

Petrovic Aleksandar Ho incontrato anche zingari felici (Skupljaci perja. Sreo sam cak i srecne cigane-1967)

Piove sul mio villaggio (Bice skoro propast sveta-1968-inedito in Italia)

Soldini Silvio Un’anima divisa in due (1996)

Zangardi Tonino Allullo drom (1993)