CONTRIBUTI PERSONALI

Italian Real Cinema
Fare documentari oggi in Italia

 1. Che cosa significa fare documentari oggi in Italia? Innanzitutto esporsi al rischio della dispersione e dell’oblio. Con questo intendiamo affermare che la difficoltà a produrre e a distribuire film documentari d’autore, deriva principalmente da un pregiudizio fortemente radicato nella nostra cultura, secondo cui il pubblico corrente, il “comune spettatore”, per dirla con le parole di Oreste Del Buono, non sarebbe affatto pronto ad assimilare un prodotto filmico che si situa in uno strano limbo, ossia tra il cinema di finzione, universalmente riconosciuto perfino nella propria accezione degenerativa di fiction, e il cosiddetto documentario educational senza finalità estetiche. Ma è proprio la difficoltà ma anche la pigrizia intellettuale nel definire questa “nuovo oggetto filmico”, ad avere per così dire ritardato i tempi di disseppellimento e di rivalutazione critica di una prassi filmica (si badi, non di un genere), la cui definizione più corretta ed efficace è quella di cinema del reale. Del resto i segni di una deliberata dimenticanza, da parte della critica, tutta a favore di un cinema, quello narrativo, ritenuto a torto, maggiore, sono leggibili nella cronica povertà di materiale storico, critico e monografico (perfino nelle filmografie dei singoli autori, viene omessa la maggioranza delle opere documentaristiche!). Infatti, anziché rimarcare semplicemente la diversità del film documentario d’autore, si è preferito ignorarne i valori e i significati, insistendo peraltro sulla sua presunta inferiorità. Ciò è dimostrato, ad esempio, dalla mancanza di una prospettiva storico-critica nell’evoluzione stessa del documentarismo in Italia, quasi che questa nuova ondata di autori e di opere, certamente originata non tanto da una solida tradizione nazionale, (che andrebbe invece sottratta all’oblio), quanto da modelli esterni, da esempi contemporanei non provenienti dal documentarismo puro come i tedeschi Wim Wenders, o Werner Herzog, o da autori esclusivamente di film documentari di grande successo come l’americano Michael Moore. Ed è proprio sull’onda di tale successo che in Italia, con il film documentario d’autore è nata una nuova definizione di documentario; qualcuno preferisce chiamarlo altro cinema o cinema del reale. Quest’ultima ci sembra la più appropriata per un linguaggio che pur rifiutando l’idea di drammaturgia e di conseguenza, l’utilizzo della recitazione, tuttavia ritrova al suo interno, ossia dentro i codici della realtà, dramma, comicità e narrazione.

Nel parlare per decenni di cinema d’autore, si è deliberatamente taciuto dei documentari di autori a tutto campo come Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzni, Florestano Vancini, Valerio Zurlini, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Gianfranco Mingozzi, Franco Piavoli, Ermanno Olmi, Silvano Agosti, Vittorio De Seta e altri meno noti come Luigi Di Gianni, Ivo Barnabo Micheli, etc.) Si pensi, inoltre a due autori ormai leggendari come la coppia Gianikian e Ricci Lucchi, documentaristi di indiscusso rigore e intransigenza; se si parla di loro lo si fa con rispetto quasi reverenziale, sebbene in Italia, quasi nessuno li conosca o può affermare di avere visto un loro film. Non è un caso, quindi, che il più significativo studio sul loro cinema non sia di un autore italiano, ma di un inglese, Robert Lumley (1). Inoltre crediamo non sia sufficiente, per quanto meritevole, l’aver risarcito l’opera documentaristica di Olmi (2), di De Seta (3) o del film dimenticato di Bertolucci La via del petrolio (4), dall’oblio pubblico, dandone completa testimonianza in due edizioni multimediali destinate alla distribuzione nelle librerie, a ridare respiro storico e al contempo eguale dignità rispetto alle opere di finzione.

2. Da una dettagliata disamina della situazione produttivo-distributiva italiana attuale, non possono che emergere il disagio e la difficoltà di affrontare il confronto, inteso come atto finale, tra la maggioranza degli spettatori e il nuovo documentario d’autore. In altre parole, le aspettative spesso disattese di un ampio e positivo riscontro di pubblico nella ricezione di questa forma di cinema che deliberatamente si pone in un doppio confronto sia con la complessità del reale, lontano (chissà per quanto tempo ancora?!) dalle illusorie ma assai remunerative seduzioni della fiction…!) che con la pluralità dei linguaggi. Non si spiegherebbe in altro modo la netta diminuzione dell’interesse di alcune note case cinematografiche verso la produzione e diffusioni di opere, in special modo italiane, proprio in un momento in cui, paradossalmente, la pubblicistica più diretta e speculativa dei giornali quotidiani, pone in risalto con alcuni articoli mirati, alcune opere pluripremiate, provenienti dagli Stati Uniti, in bilico tra documentario e finzione (il docu-fiction o docu-drama se si preferisce). Ci riferiamo in particolar modo a Fandango e a Feltrinelli che alcuni anni orsono avviarono un’intensa quanto ammirevole attività di distribuzione su supporto dvd (nel caso di Fandango, talvolta anche di produzione) di film documentari di autori italiani e stranieri, sebbene con prevalenza di quest’ultimi. A queste due sigle se aggiungono altre due, con minor clamore: si tratta dell’editore milanese Chiarelettere che opera nel settore multimediale con film come La strada di Levi, 2008 di Davide Ferrario o Il sol dell’Avvenire di Gianfranco Pannone, 2007 e il romano Derive /Approdi che in collaborazione con Gianluca Arcopinto, ha creato una nuova collana dedicata al cinema indipendente, dove vengono proposte opere come Pietro, 2010 e Rata nece biti, la guerra non ci sarà, 2009 di Daniele Gaglianone o Di mestiere faccio il paesologo, 2011 di Andrea D’Ambrosio. Del resto lo stesso Arcopinto orgogliosamente rivendica per sé un’idea di cinema autonomo e a basso costo. Ma vorremmo anche aggiungere il lavoro di diffusione del cinema del reale svolto per alcuni anni dalla rivista Internazionale con la collana Reportage che promuoveva sia lungometraggi narrativi che di documentario.
Tra il 2010 e il 2012 si è quasi del tutto esaurita l’energia propositiva grazie a cui era andato formandosi un ampio catalogo di proposte, alcune delle quali di altissima qualità. Ciò è dipeso da una ricezione limitata del film documentario d’autore da parte della maggioranza degli spettatori che sono soliti identificare il cinema con i film proiettati in sala. Un equivoco persistente sembra caratterizzare le modalità di fruizione di una cinematografia sommersa che, non solo andrebbe sistematicamente riscoperta, ma riconsiderata in una nuova luce critica. Ma da dove cominciare? Dalla produzione? Dalla pubblicistica specializzata e dalla didattica o dal lavoro svolto dagli archivi (Istituto Luce, Teche Rai, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, per citare i più importanti) o da altre istituzioni? Si potrebbe rispondere: dal coordinamento di ciascuno di questi soggetti orientati sempre più verso lo sviluppo di un’autentica cultura del film documentario.
Se i suddetti archivi hanno come fine la raccolta e la conservazione delle opere (siano esse in pellicola o in digitale), Documè (Archivio del Dcumentario Etico e Sociale) con sede legale a Torino, aveva uno scopo ancora più ambizioso, quello di promuovere e distribuire attraverso rassegne in varie città italiane, il cospicuo patrimonio di film documentari in prevalenza italiani, ma una parte anche dedicata ad autori stranieri. Aveva, perché nel 2010 l’archivio (nato da un’iniziativa di privati), ha cessato definitivamente la propria attività, venendo meno i finanziamenti pubblici che ne garantivano l’esistenza. Questo prova tutta la fragilità di iniziative coraggiose in ambito documentaristico che non abbiano un ruolo istituzionale. Ma il grande e riconosciuto merito di Documè è stato quello di mettere ordine nella complessa nonchè sommersa geografia del documetarismo italiano, garantendo una relativa visibilità a un gran numero di autori italiani, sparsi sull’intero territorio, alcuni dei quali oggi hanno faticosamente ottenuto una qualche risonanza. nazionale. Quanto alla produzione, proseguono la loro attività sigle come Indigo film, Pierrot e la Rosa, Vitagraph. Stefilm, Pulsemedia, Suttvuess, Paneikon, Prospettiva Nevskij, FreeZone, Tucher film, Nobu Productions (5), per citare solo le più significative), oltre, ovviamente, alla “majors” Fandango, 01, e Cecchi Gori, mentre in ambito strettamente distributivo diversi autori si avvalevano, per far conoscere le proprie opere al di fuori dei confini locali, di una piccola ma efficace distribuzione digitale, la DocVideo che, pur servendosi di una limitatissima e selezionata rete di vendita, poteva garantire, anche attraverso il sistema digitale download, una visibilità altrimenti assai difficile da raggiungere. L’ostacolo naturale più grande per la quasi totalità dei documentaristi italiani non è rappresentato dalla mancanza d’ispirazione, di qualità tecniche o di elaborazione stilistica, o infine di povertà tematica, ma da una sempre più cronica difficoltà di visibilità, di comunicazione sul mercato delle immagini in movimento. Un ostacolo che genera frustrazione, senso di isolamento non voluto, ma non il desiderio di realizzare nuove opere. Il costo relativamente basso, necessario alla realizzazione di un lungometraggio in digitale, rispetto ad un film su pellicola con attori professionisti, tecnici e location costosi, (perché così, da sempre, esige l’industria del cinema), ha intensificato, nel corso dell’ultimo decennio il fenomeno dell’autoproduzione (e con esso una nuova figura, quella del regista-autore-produttore); sebbene le difficoltà sopraelencate ne minino costantemente la sopravvivenza, essa può almeno contare su passaggi televisivi nazionali e internazionali, in palinsesti che tuttavia tendono ad imporre durate fisse e soprattutto codici narrativo-visivi piuttosto rigidi. Raramente e sulla base di circostanze, spesso casuali e non specificatamente legate al valore intrinseco dell’opera, un film documentario italiano potrà ottenere il privilegio di un’uscita in sala e in prima visione (6). Ciò nonostante, è proprio nel documentario contemporaneo che verrebbe realizzandosi quell’idea di cinema indipendente a low o no budget, così auspicato e diffuso negli anni sessanta-settanta e costantemente penalizzato dagli altissimi costi dell’industria cinematografica. E qui, dunque, sta tutto il paradosso, nel prezzo della libertà, nel dovere comunque riconoscere che oggi, in questo paese, l’indipendenza dai potentati d’ogni genere, è si accettata ma non riconosciuta come valore culturale irrinunciabile e quindi, nella maggior parte dei casi, resa innocua mediante la “politica del silenzio”.

3. Come leggere, infine, la tendenza, da parte di alcuni autori (attualmente ancora pochi), ad abbandonare l’attività di documentaristi a favore dell’ingresso nel “mondo del cinema”, secondo un linguaggio propriamente mistificatorio con cui si intende alludere a tutto ciò che si muove attorno al cinema tout court? Come una necessità naturale, o un desiderio condiviso dalla quasi totalità degli autori? Comunque sia, la questione che si pone è se l’abbandono del documentario per la finzione narrativa sia o no una scelta puramente estetica, l’inevitabile evoluzione di un percorso filmico individuale oppure una sorta di resa incondizionata alle lusinghe del mercato. O entrambe le opzioni insieme? Vi è anche l’ipotesi di una volontà, peraltro legittima, di misurarsi con un linguaggio differente, con l’idea di drammaturgia che è alla base di ogni invenzione narrativa. Forte, ad esempio, è l’ambizione, per ciascun autore, di vedere il proprio lavoro proiettato in una sala cinematografica attraverso una normale distribuzione. Ma anche qui il discorso è più complesso di quanto sembri. Altrettanto forte è inoltre la paura dell’isolamento cui spesso viene costretto chi opera nel cinema documentaristico, specialmente se legato a produzioni indipendenti: niente distribuzione nelle sale (a meno che non si tratti di operazioni mirate in singole sale culturali o di cineclub), niente promozione sui quotidiani di grande tiratura, niente grande distribuzione per il supporto in dvd, e inoltre, difficoltà a partecipare ai festival internazionali più importanti. L’unico canale ritenuto ancora praticabile sembrerebbe essere quello delle televisioni, a riprova dell’ambiguità della natura del film documentario. Ciò significa innanzitutto confinarlo dentro un palinsesto televisivo, confondendo, linguisticamente, il contenitore con il contenuto. Ed è un dato paradossale il fatto che la crescita progressiva del numero degli autori e dei documentari in Italia nell’ultimo decennio, non corrisponda affatto al sempre più limitato pubblico disposto a seguirne la sempre più complessa e articolata produzione. Ciò tuttavia conferma la natura non effimera di un fenomeno che attende ancora di essere studiato. Ma anche la tenace ostinazione con la quale si continua a produrre film a basso costo, ciascuno dei quali è quasi sempre una scommessa e un rischio; rischio di non avere un pubblico e quindi di una circolazione limitata ad uno spazio fisico e geografico d’influenza e di realizzazione del film stesso. Per questa ragione non stupisce che nella maggior parte dei casi a produrre non sia il privato (piccolo o grande che sia), ma l’ente pubblico nelle sue diverse articolazioni.
Abbiamo assistito con attenzione all’esordio nel lungometraggio di finzione di due interessanti e promettenti autori come Andrea Segre e Massimo Coppola, sforzandoci di cogliere quel rapporto di continuità tra il loro fare documentario e il mettersi al servizio del puro racconto d’invenzione che auspichiamo non venga smarrito. Diverso è il caso di Pippo Mezzapesa, la cui opera d’esordio Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate, 2008, già si allontanava dall’estetica del documentario puro, non nascondendo una certa modalità di ricostruzione narrativa. Quanto poi al fin troppo celebrato Pietro Marcello, autore di un’interessante opera d’esordio Il passaggio della linea, 2007, che purtroppo ben pochi hanno visto (sebbene fosse “Internazionale” a distribuire capillarmente nelle edicole) e del pluripremiato La bocca del lupo, 2010, non sappiamo quale scelta opererà per il suo prossimo lavoro. E’altresì auspicabile che il mestiere e il linguaggio multiforme del documentarismo possa comunque rappresentare sempre una scelta cosciente, o se si vuole, un’opzione per questi e per altri autori, proprio in virtù della sostanziale originalità e riaffermazione di questa forma di cinema. Beninteso, la maggior parte degli autori che la praticano (anche utilizzando il digitale), sono consapevoli di fare cinema utilizzandone a tutto campo il lessico e la profondità dello sguardo, mentre la rimanente parte (minoritaria), continua a credere (sbagliando, s’intende) che il vero cinema è un’altra cosa!…Ma se proviamo infine a rovesciare il rapporto realtà-finzione osservandolo dalla prospettiva di registi di punta come ad esempio, Mimmo Calopresti, Davide Ferrario, Francesca Comencini, Guido Chiesa, Daniele Gaglianone, autori di alcuni tra i più interessanti film documentari degli ultimi anni, ecco che scopriamo come il suo idioma abbia una credibilità e una consistenza tale da produrre una riflessione necessaria e urgente, sull’importanza del film documentario nella storia del cinema. L’inclinazione di questi autori verso il documentario ed il suo particolare linguaggio aperto a tutte le influenze esterne, siano esse, saggio, poesia o racconto, è la prova più concreta, lo ribadiamo, di una dialettica di linguaggi intercambiabili, differenti ma ugualmente tesi alla conoscenza e alla rappresentazione del reale.

Note

1. Robert Lumley, Ricordo e oblio: dal Polo all’Equatore, trad. di Enza Minnella, in Cinecritica n.53 gennaio-marzo 2009.
Il suddetto articolo si proponeva come estrema sintesi di un volume definitivo, pubblicato successivamente a Londra nel 2011, Entering the frame: Cinema and History in the films of Yervant Gianikian and Angela Ricci-Lucchi, 1st.edition, che ancora attende di essere tradotto nel nostro paese.

2. Ermanno Olmi: gli anni Edison, Feltrinelli Real Cinema

3. Il mondo perduto. I cortometraggi di Vittorio De Seta 1954-1959, Feltrinelli Real Cinema

4.Una scelta coraggiosa, quella di ripubblicare l’importante e misconosciuto capolavoro documentaristico di Bernardo Bertolucci (Feltrinelli Real Cinema, a cura di Sergio Toffetti), tuttavia destinata a rappresentare un caso isolato. In altre parole, è mancata l’idea di un progetto organico di riscoperta riproposizione delle opere più significative della tradizione del documentarismo italiano.

5 Sigla creata dall’ex giornalista e inviato del Corriere della Sera Claudio Lazzaro, Nobu significa No Budget, ossia un tipo di produzione indipendente altamente professionale, ma a budget ridotto ai minimi termini. Con questa formula, Lazzaro, regista autarchico e “urticante”, ha già realizzato tre documentari: Camicie verdi. Bruciare il tricolore, 2006, Nazirock, 2008, Bandiera viola, 2010. Con quella che, a detta dello stesso regista, si potrebbe definire una trilogia politica egli ha inteso smascherare tre nemici della democrazia italiana, ossia la Lega Nord, i gruppi giovanili di estrema destra e Silvio Berlusconi.

6. Se si deve parlare di eccezione, allora essa è rappresentata dal cinema Mexico di Milano, diretto dall’instancabile Antonio Sancassani, da anni ormai impegnato nella programmazione quotidiana di opere (non solo legate al documentario) ignorate par ragioni sin troppo ovvie, dai grandi circuiti distributivi. E’ accaduto, esemplarmente, con Il vento fa il suo giro, 2008 di Giorgio Diritti, (anch’egli proveniente dal documentario), che diventò un vero e proprio caso. Si succedono, recentemente, tra gli altri, esempio, film documentari come quello di Marina Spada (Poesia che mi guardi, 2008), Luigi D’Onofrio, Monica Affatato (La voce Stratos, 2009) e di altri autori. L’attenzione del pubblico milanese rivolta a queste opere è sempre alta, oscillante a seconda dell’interesse che nell’immediato, ciascun film riesce a suscitare. Tuttavia il Mexico resta pur sempre un caso isolato, difficilmente esportabile in altre città.