U-TURN DI OLIVER STONE
CINECRITICA n. 18-19 (aprile-settembre 2000)
PARADIGMI DELLA VIOLENZA NEL CINEMA AMERICANO. UN’INTERPRETAZIONE IRONICA: U-TURN DI OLIVER STONE
Le nuvole corrono veloci nei cieli d’America. Nuvole in viaggio, più veloci delle automobili in corsa di tanti road-movies o di avventura di quotidiana violenza. C’è sempre una freeway che taglia in due il paesaggio desertico dell’Arizona, perdendosi nel nulla. Come afferma Alberto Morsiani, le nuvole sono << una costante iconografica di tanto cinema americano. Le nubi, certo corrispondono a un dato, diciamo così, metereologico, perchè effettivamente i cieli di buona parte d’America sono proprio così, percorsi fino al limite dell’orizzonte da schiere di quelli che sembrano morbidi cuscini disposti a bianchi strati, ma la nube è anche immagine del caos materico originario da cui l’ordine infine appare.>> (1)
E infatti lo scenario che abbiamo sovente di fronte di fatto appartiene al tempo del Mito che diventa puro linguaggio, dove ogni elemento presente o vivente non rappresenta se stesso, ma il proprio simulacro. Le nuvole, il deserto, la strada, la vecchia automobile guidata da un giovane di città, Bobby Cooper, senza passato nè futuro, la presenza sull’asfalto di animali morti o striscianti, costituiscono i topoi di un paesaggio più immaginario che effettivamente reale, attraversato e assimilato dalla forza iconica e mediatica del linguaggio filmico.
Se il protagonista di passaggio è privo di storia, la stessa natura che lo circonda risucchiandolo in un vortice atemporale, precede la Storia come wilderness e anticipando la fine. Girando “U-Turn”, Oliver Stone, proprio perchè consapevole (come mai prima d’ora) della natura stereotipata delle immagini di Hollywood, opera una sorta di travestimento linguistico narrativo. In apparenza l’operazione si avvicinerebbe, per così dire, a quella sorta di metalinguismo che negli anni settanta trovava in Robert Altman e in Peter Bogdanovich i suoi esponenti di rilievo. Ma se nelle opere di questi ultimi vi era un esplicito intento di rilettura critica dei generi, ma dall’interno, l’intento di Stone invece è quello, certamente nichilista, di ricreare quel vuoto di senso e di forme in cui è precipitato il cinema hollywoodiano contemporaneo. La curva a U del titolo allude ad un itinerario obbligato senza ritorno, un cul de sac che si può intendere come metafora della medesima condizione del cinema americano.
Ecco che l’immagine già vista si ripete: il regista immagina che un ragazzotto senza storia nè identità resti in panne con l’automobile (una vecchia Chevrolet rossa decapottabile del ’64) nel deserto dell’Arizona in prossimità di Superior, una cittadina all’apparenza fantasma, dove è costretto a fermarsi. Vi sono già nell’inizio, come si vede, alcuni degli elementi che compongono il paesaggio segnico del new american movie. Innanzitutto la percezione del vuoto che ricompare ogni volta che un personaggio si mette in viaggio “on the road”. La natura animale, vista in dettaglio, come un semplice relitto o, se si vuole, una arcaica sopravvivenza. Finalmente l’uomo (con la faccia di Sean Penn) uno come tanti milioni di altri uomini, senza una storia da raccontare, senza futuro; un uomo di cui sappiamo solo che vuole raggiungere Las Vegas dove alcuni gangster russi cui deve molto denaro lo attendono impazienti. Dopo di lui viene certamente l’automobile di cui ha un vero e proprio culto (anno di fabbricazione e modello d’altri tempi). Nulla di più “americano”, dunque cinematografico, il contrario di qualsivoglia eccentricità di questa mitologia dell’automobile, oggetto feticistico, quasi un prolungamento del corpo e sua proiezione artificiale (tradotto in immagini esasperate ed estreme in “Crash” [1997] di David Cronenberg).
Stone gira con la fredda e divertita consapevolezza di rifare il calco di “Red Rock West” (1993) di John Dahl che è a sua volta il calco di “Blood simple” (1984) dei fratelli Coen. Nel procedere nell’inventario degli stereotipi che il film mette in scena, scopriamo che il giovanotto è finito in quello che un tempo lontano era territorio indiano degli Apache. Divieto di inversione a U significa restare dove si è e non poter tornare indietro: Stone introduce il tema dell’indiano come sopravvissuto alla distruzione, alla dispersione e alla decadenza della sua razza, irridendone la retorica di cui certo cinema contemporaneo si avvale per introdurre nel plot narrativo una sorta di neoumanesimo indiano che rivela tutta la cattiva coscienza del bianchi. Se da “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1975) di Milos Forman a “Il coraggioso” (1997) di Johnny Deep la figura dell’indiano viene acquisendo uno spessore tragico, Stone riversa tutto il suo cinico sarcasmo (che già si era ampiamente esplicato in “Assassini nati”) nell’invenzione di un personaggio secondario, un finto cieco con occhiali neri, verboso e sfaccendato, con un cane spelacchiato che spaccia per morto, mentre esso è vivo e vegeto. Per il giovanotto forestiero, l’indiano è solamente un folle scriteriato, un bidone di rifiuti come l’altro personaggio secondario (nel film tutti sono secondari o di seconda mano, compreso il protagonista) che è un meccanico d’aspetto sgradevole, avido e truffatore a cui il giovanotto si rivolge per far riparare l’automobile che ha il manicotto della benzina spezzato. Egli si diverte a tormentarlo pretendendo denaro che egli non possiede e che dovrà invece procurarsi. E’ appunto il denaro il feticcio, l’elemento scatenante e il fulcro di tutte le storie. Stone volontariamente ne riprende l’ossessione autodistruttiva. Finito suo malgrado in un desolato villaggio “western” come infinite volte ci hanno offerto il cinema e spot pubblicitari, perfettamente identici, il giovanotto rimane invischiato in una trama “nera” da cui non uscirà perchè così recita il più logoro copione, come il binomio eros-denaro, da cui si dipanano tutte le forme della seduzione.
L’accidentalità, la casualità diventano noia e norma e la noia scopre l’intrigo attraverso il caso. Appare come dal nulla di un pozzo senza fondo la donna fatale: giovane, bellissima e di origine indiana. Il riferimento alla subalternità di quella cultura si fa tanto più insistente quanto incline al grottesco. Stone carica l’intrigo amoroso tra il giovanotto e la ragazza di tutte le convenzione del melodramma attribuendo al personaggio femminile tratti ingannevoli e facendo dell’uomo una semplice vittima. Si smarriscono dunque le ultime illusioni di autenticità di un mondo giunto all’esaurimento e tragicamente compromesso con quello dei bianchi.
Al tempo stesso assistiamo anche alla fine dell’autenticità del linguaggio filmico (qui Stone opera una sorta di identificazione e finanche di autonegazione) a sua volta ridotto a puro fantasma. La volgarità, il denaro e la pubblicità si sono mangiati il cinema, questo è il messaggio che sembra uscire dal film, specchio divertito del nulla, dove tutti sono avvertiti: il mercato è un cul de sac, una via senza ritorno. Marxismo e nichilismo, uniti ad una singolare leggerezza (tanto più se si tratta di un regista come Oliver Stone) conferiscono al film il ritmo di un balletto di patetiche controfigure. Stone si diverte a giocare con il lessico filmico rovesciandolo, deformandolo, scomponendolo in ben calcolati gesti formali nel tentativo (peraltro ben riuscito) di dimostrare la sostanziale validità del concetto di intercambiabilità dei linguaggi e del suo uso indifferenziato.
Al centro della vicenda si riproduce spudoratamente la situazione tipo fratelli Coen: un giovanotto viene pagato da un ricco commerciante (Nolte) per uccidere la moglie che è anche sua figliastra, che a sua volta gli promette molto più denaro per spingerlo a uccidere il marito che oltre ad essere ricco, è un maniaco sessuale violento e infantile. Il giovanotto, a sua volta, conteso dall’impellente bisogno di soldi e dall’amore verso la donna ingannatrice, accetta il denaro da entrambi pur senza condurre a termine il compito assegnatogli, se non con l’aiuto e la complicità della donna.
Se analizziamo le figure principali e quelle secondarie scopriamo che in fondo si somigliano tutte in quanto a prevedibilità. Dopotutto perfino le situazioni in cui esse sono “fatte precipitare”, mostrano una progressiva perdita di senso proprio attraverso un uso funzionale del linguaggio che non lascia dubbi sul fatto che il regista sia mosso di intenti metafilmici. Gli stessi personaggi possiedono una certa valenza caricaturale sebbene conservino ancora uno spessore realistico, Sia il ricco commerciante, che il meccanico, che il poliziotto, amante segreto della ragazza e infine lo stesso giovanotto, appartengono di fatto al medesimo macrocosmo dominato dal denaro e dal sesso, e dunque al medesimo clone filmico laddove lo scopo ultimo del cinema di Hollywood è quello di trasformare i desideri di massa in mitologie spesso ambigue ed oscure. Con gusto sapiente dell’intrigo Stone spinge la vicenda sino alle conseguenze estreme facendo scontrare fra loro i personaggi sino a farli sbranare gli uni con gli altri in un cupio dissolvi molto prossimo all’apologo. Per tutta la durata della vicenda persistono le immagini dell’indiano e del meccanico come un basso continuo che sembra introdurre il convergere dei motivi di seduzione nelle mente, per così dire, indifesa del giovanotto: da una parte la bellezza della donna d’origine indiana, la cui madre si è suicidata perchè vittima dell’uomo (suo padre) che la seviziava, dall’altra la necessità del denaro per liquidare i gangsters (uno dei quali è uno stupido russo che si reca nel villaggio a cercarlo e subito viene arrestato dal poliziotto) e l’odioso meccanico che ha ancora la sua automobile. Tuttavia perfino il denaro possiede una sua bellezza; e il cinema continua a darne testimonianza narrando storie come questa, di inseguitori e inseguiti, di gelosie e di intrighi. Ma l’America contemporanea informa di sè stessa perfino nel paesaggio urbano europeo sul quale poi vengono costruite ipotesi filmiche come il trhriller polanskiano “Frantic” (1988) che mette in scena un lungo Senna simile a Manhattan. Dalla corruzione delle immagini facilmente si passa a quella del paesaggio reale che nell’immaginario filmico nordamericano, scopriamo già essere perfettamente corrotto. Al suo interno (nella sua dimensione fisica) e all’esterno (ossia nell’uso di immagini “rubate”) Stone infatti costruisce alcune sequenze (almeno due in senso quasi letterale) come semplici spot pubblicitari, facendo preciso riferimento a due notissimi spot americani; i suoi personaggi si muovono quasi facendo il verso a figure e ad azioni già viste, avviando quel processo di erosione, di sgretolamento delle immagini filmiche come forme estetiche autonome. Stone muove dunque la sua mdp in un tessuto di segni fra loro contrastanti, tuttavia orientati verso una sorta di azzeramento del linguaggio da cui (come avveniva in molti testi degli anni sessanta) non emerge nè lo sguardo innocente e “primitivo” dell’artista nè una fenomenologia della realtà descritta. Ciò che resta invece è un tetro spettacolo di battute, di sguardi, di azioni che recitano il dramma di una ancor più dichiarata, ovvia, ottusità. Come nelle ultime sequenze dove la regia di Stone inequivocabilmente rivaleggia con quella di tanti anonimi artigiani dell’immagine allo scopo di mostrare la vacuità di qualsiasi tentativo di realizzare oggi in America un cinema d’Autore. Primi piani stretti e montaggio rapido si sprecano per condurre l’azione all’estremo culmine della farsa. Dall’interno-notte della villa del commerciante dove si consuma il prevedibile delitto (l’uomo aiuta la ragazza ad uccidere il marito) all’esterno-notte di una strada fuori città dove la giovane donna può finalmente vendicarsi del ridicolo amante poliziotto fino all’esterno-giorno del burrone che definitivamente chiude la fuga dei due protagonisti, è un crescendo di colpi di scena già previsti: l’odore del denaro, sublime feticcio del cinema nordamericano impregna di sè l’ultimo stanco “duello” tra i due amanti (la donna e il giovanotto) che appunto stremati, stanno lì nel fondo del burrone, ignari che entrambi moriranno (l’uomo addirittura per colpa di un manicotto!); sono lì a rammentarci che il cinema nordamericano un tempo fu anche “Greed” di Eric Von Stroheim!…
Note
1) Alberto Moriani, Scene americane, Parma, 1994, pag. 16
2) Se nel film di Milos Forman la figura del gigantesco indiano riveste un significato particolarmente tragico, è con “Il coraggioso” di Johnny Deep (1997) egli stesso d’origine indiana, che tale figura verrà assumendo contorni disperati.
FILMOGRAFIA
1981 La mano
1986 Salvador
1986 Platoon
1987 Wall Street
1989 Talk Radio
1989 Nato il quattro luglio
1991 JFK un caso ancora aperto
1991 The Doors
1993 Tra cielo e terra
1994 Assassini nati- Natural born killer
1995 Gli intrighi del potere- Nixon
1997 U-Turn