L’IMMAGINE DELL’AMERICA LATINA NEI CINEASTI EUROPEI E AMERICANI
CINECRITICA n. 25 (gennaio-marzo 2002)
L’IMMAGINE DELL’AMERICA LATINA NEI CINEASTI EUROPEI E AMERICANI*
Per l’Europa l’America Latina è folklore sociopolitico.
Luis Puenzo da “La peste”
Prima parte
Esiste una sorta di colonizzazione estetica nordamericana ed europea dell’immaginario latinoamericano nell’accezione della realtà fisica, storica e politica. Certamente lo crediamo. E’ necessario allora stabilire la vera natura dello stereotipo cinematografico attraverso il quale viene sostituita la visione “latinoamericana” di quella stessa realtà con quella per così dire “straniera”, paragonabile forse allo sguardo del viaggiatore nell’atto di ricostruire una realtà o una verità che non gli appartiene e dalla quale è comunque escluso. Tuttavia è pur sempre interessante cogliere il punto di vista dell’altro, la cui esistenza sul mercato delle idee e delle immagini diventa appunto sostitutiva (al di là di una valutazione specifica) rispetto alle fonti cinematografiche “originali”; in altre parole ciò che viene descritto in talune opere, intorno alla realtà latinoamericana, di autori europei o nordamericani, si impone al pubblico occidentale con indubbia forza iconica. Questo per la semplice ragione che il nostro mercato non permette l’accesso nelle sale alla stragrande maggioranza dei film latinoamericani, ad eccezione di poche opere privilegiate e per un’altra ragione che riguarda essenzialmente la qualità spettacolare di tali proposte. Inoltre la cronica debolezza produttiva e distributiva dei paesi d’origine fa si che non vi sia visibilità alcuna per quella cinematografia e per i valori che ad essa sono collegati.
In taluni casi accade che la conoscenza di alcune tematiche giungano ad una conoscenza di massa solo attraverso l’interpretazione occidentale euroamericana: un punto di vista che si caratterizza per l’ambiguità, tuttavia mai veramente privo di interesse critico ed estetico. Il senso di ambiguità consiste nel principio di appropriazione critica di un continente, che si esprime come prassi comune di alcuni cineasti come Werner Herzog, Roland Joffé o Carlos Saura, ma ancor più autori come Costa Gavras, Elia Kazan, Ken Loach, Barbet Schroeter, Julian Schnabel, i cui contributi cinematografici alla conoscenza o alla disconoscenza dell’America Latina, come Conquista, storia politica, avventura e letteratura, possono essere ordinati in almeno tre unità tematiche: l’idea della Conquista e dell’avventura sul vasto territorio latinoamericano (Herzog, Joffe, Saura), la dimensione politica contemporanea (Costa Gavras, Kazan, Pontecorvo, Loach) e infine quella letteraria (Schroeter, Polanski, Schnabel, Rosi).
Partendo dall’evento epocale della Conquista attraverso l’avventura colombiana un film come 1492: La conquista del paradiso (1492. Conquest of Paradise-1992) di Ridley Scott non ci viene certo in aiuto dal punto di vista dell’altra verità, ossia quella dei vinti. Il medesimo concetto di Scoperta non è che un punto di vista relativo al punto da cui si osserva il problema, ed è intimamente collegato a quello di Conquista, il quale a sua volta presuppone la presenza della violenza, delle armi e del sangue, vero teatro della Storia europea spagnola nell’affresco barocco di Carlos Saura ispirato all'<<avventura del folle>> di don Lope de Aguirre, El Dorado (El Dorado-1988). Anche l’idea di Conquista pacifica, voluta dalla Compagnia di Gesù, contiene pur sempre i segni di una violenza che nasceva dall’ignoranza e dalla volontà di imporre il Dio dei bianchi. Colombo è una sacra icona per tutto l’Occidente al di qua dell’Oceano, con la tipica mescolanza di orgoglio genovese, di calcolo e di spirito avventuroso: egli non può certo appartenere all’immaginario latinoamericano. Il problema di Colombo riguarda casomai la sua coscienza di essere umano e di un’intera nazione. Il film di Scott non riesce a cogliere nessuna delle due dimensioni dell’individuo e della Storia. Inoltre l’estasi della bellezza del Nuovo Mondo provata dal navigatore è diventata una sorta di manierismo estetico, un verbo naturalista in grado di commuovere “turisticamente” lo spettatore e produrre immagini di una presunta bellezza stereotipata. Colombo è altresì l’archetipo della figura dello straniero che si stupisce di ciò che è in suo potere possedere visivamente. E al “possesso della bellezza” d’ora in avanti aspirerà la cultura occidentale, quella di matrice culta e quella di massa. Se tale è il destino di un cineasta d’origine inglese immerso nel sistema hollywoodiano come Ridley Scott, ben diverso appare l’approccio di due cineasti europei come Carlos Saura e Werner Herzog che raccontano da due punti di vista differenti la tragica impresa di Lope de Aguirre, narrata in forma cronachistica dal “testimone oculare” Francisco Vásquez nel 1560-1561 nella sua relazione di viaggio.
Più vicino alla verità storica, il personaggio del film di Saura, interpretato da un grande Omero Antonutti, è immerso in una luce torbida e cupa che odora di tradimento e di morte. Lontanissimo dalla cultura germanica e dal suo pensiero irrazionalista di un Herzog, Saura insiste naturalmente e con inusitata asprezza sui meccanismi di rappresentazione della violenza fratricida e della follia che pertanto non si identifica e cancrenizza esclusivamente nella figura di Aguirre, ma in tutti i membri della spedizione, tutti uomini d’armi e d’eccezione delle due figure femminili, vittime entrambi della furia degli uomini: la sposa meticca di Don Pedro de Ursua e la figlia di Aguirre, da lui stesso trucidata. Il jé accuse di Saura, pur se da un punto di vista europeo, è dunque rivolto alla mentalità spagnola, alla sua anima cattolico-militare, perciò il suo contributo allo sviluppo di un discorso “politico” attraverso immagini di follia collettiva risulta fuori dubbio sebbene esso riguardi propriamente la dialettica di potere di un regno europeo.
Nel film di Werner Herzog, Aguirre furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes-1972), assistiamo invece ad una sorta di travestimento: dietro la follia del personaggio storico Lope de Aguirre, basco, si cela quella del teutone Klaus Kinski, anzi è la stessa maschera dell’attore herzoghiano a seppellire il rispetto filologico che il racconto esigerebbe. Forse proprio in tale contraddizione risiede la forza stessa del film. In esso la presenza della natura, come in El Dorado, è percepita sin dall’inizio dell’impresa come ostile e minacciosa, ma Aguirre, tuttavia, ne avverte la solennità ricca di presagi e l’immensa forza (la presenza inquietante e fatale degli indios) che sarà causa della sua morte. Anche nella scelta dell’epilogo Herzog non rispetta la verità storica. Aguirre non viene ucciso dagli indios, ma dai suoi stessi sottoposti in pieno clima di vendetta. Non si dimentichi che la figura di Aguirre è l’archetipo di ogni figura di avventuriero moderno, sempre portatore di una finta civilizzazione.
E’ altresì curioso osservare come nella cosiddetta “geografia herzoghiana” dell’America Latina il personaggio di Aguirre-Kinski conosce ben due metamorfosi (o se si vuole, una migrazione iconica) che vanno dall’avventuriero in Amazzonia (Fitzcarraldo) al bandito del Sertao (Cobra verde). Quest’ultimo sogna la neve, i ghiacci, ma è costretto ad imbarcarsi in Africa, l’altro infelice mondo che vedrà la sua ascesa e insieme la sua fine. Al contrario, la figura “moderna” di Fitzcarraldo nella sua ottimistica ostinazione ed anche nella totale indifferenza verso la natura sommersa e verso gli uomini, già prefigura in età industriale, quel gusto dell’impresa capace di piegare a sé, ai propri scopi, anche le circostanze più estreme. Al nobile intento celebrativo (il teatro nella foresta in onore del grande Caruso) vengono sostituendosi nuove e più calcolate imprese, quasi sempre legate allo sfruttamento dei luoghi, delle risorse e degli esseri umani. Infatti, per assoluta volontà di Fitzcarraldo-Kinski, si abbattono alberi, si sfruttano gli indios, si sacrificano vite umane. Il sogno della “nave sulla montagna” diviene realtà, ma non quello del teatro, che nella realtà esiste, ma in un altro luogo. Fitzcarraldo tuttavia incarna un paradosso, ossia l’unione dell’elemento irrazionale (il sogno del teatro e del canto) con una metodologia che fa propri i modelli dello sfruttamento colonialista.
In opere come Mission (Mission-1986) di Roland Joffe difficilmente il pubblico riesce a vedere ciò che si situa oltre le immagini efficacemente costruite; non la dialettica storia, le ragioni della presenza gesuitica nelle terre Guarany, e quelle della sconfitta, sia degli indios che degli stessi gesuiti. Ancora una volta però la storia delle penetrazioni esterne nel mondo “altro”, visto esclusivamente come terra di conquista, è interpretata dal punto di vista della giustezza e della necessità delle missioni in Sudamerica. Lo sguardo dell’indio è ridotto a puro residuo vittimistico, in una prospettiva di un cristianesimo combattuto tra orgoglio ignaziano (espresso dal confronto tra le due figure di gesuiti) e carità evangelica. Ma la forza del racconto risiede nella conversione del brutale commerciante di schiavi Mendoza-De Niro e nel viaggio di espiazione attraverso il periglioso sentiero che lo condurrà finalmente “sopra le cascate”, ossia nel paradiso inconquistato dell’Utopia gesuitica, che il duplice potere della corona spagnola e di quella portoghese si incaricano di distruggere, riuscendovi. Roland Joffe, cineasta progressista, ma artisticamente diseguale, tenta dunque di rappresentare l’idea socialista del collettivismo agrario dentro il cui contesto si colgono solamente alcuni elementi esteriori: la maestosità della natura, le grandi doti canore e la dolcezza degli indios. Tutto dentro il dominio della Chiesa cattolica spagnola. Alla passività degli indios fa da contrappunto l’energia dei due sacerdoti-divi (De Niro e Irons, l’uno pacifista e l’altro guerriero), schierati su posizioni antagoniste, ma entrambi destinati all’eroico martirio. Sull’intero racconto emerge la potenza incontrastata di una natura sontuosa da cui, nella sequenza finale, emerge una nuova speranza riposta nei figli di coloro che sono morti difendendo la propria terra. Epilogo lirico e pessimista che tuttavia non riesce a dissipare il sospetto di una messinscena viziata da un eccessivo spirito catartico, passivo e dunque inconcludente. Appare infine evidente che la figura chiave di questa esperienza cinematografica di appropriazione dell’immaginario latinoamericano, nella sua primaria componente, quella mitica del binomio strategico scoperte-conquista, è propriamente lo straniero, colui che osserva la realtà da un altro mondo e se ne appropria, ma senza mettervi radici reali, ad eccezione del radicamento gesuitico, dando così alla propria impresa un valore simbolico ancora prima che concreto, al pari forse dei cineasti europei e nordamericani e delle loro opere.
Seconda parte
America Latina, luogo di derive, di fughe, di rivoluzionari e di dittatori, nel quale abbiamo visto infrangersi il mito dell’Eldorado e quello del Tropico. Dallo spazio fisico e mentale grandioso della Conquista si è infatti giunti ad uno certamente più ristretto, ambiguo, dove il fuggire e il nascondersi, propri dello spirito dell’avventura esistenziale, si accompagnano al binomio etico politico di rivoluzione-libertà. Il cinema se ne appropria grazie alla natura vorace ed omnicomprensiva di tale forma di comunicazione espressiva di massa, che a sua volta costruisce solidi stereotipi politico-sociali.
1. Derive
Georges Henri Clouzot e John Huston raccontano soprattutto storie, storie di uomini alle prese col proprio destino, ossia giunti ad una sorta di cul de sac dell’anima, luogo infido e terminale. L’epopea dei reietti e dei falliti, senza dimora né denaro, incantano da sempre, a prescindere dalle latitudini geografiche e culturali. Ne è forse un raro esempio il film “americano” del regista argentino Hector Babenco Ironweed (1987) (ma curiosamente il regista argentino, naturalizzato brasiliano, sceglie un’ambientazione nordamericana calata nel clima della Depressione). Ancora permane la visione dell'”altro”, ossia dell'”esotico”, per tramite del quale vengono formandosi storie estreme, dunque, ma possibili. Anche i luoghi più claustrofobici hanno le loro maschere, i loro inganni, siano essi il volto di una donna misteriosa, l’allegra e barocca disperazione di una fiesta mexicana (Sotto il vulcano-1983) o la promessa di un guadagno impossibile (Vite vendute-1953). Al tempo stesso si profila lo spazio oscuro del nascondiglio del carnefice nazista nel classico stereotipo del cinema di genere nordamericano (Il maratoneta-1976 di John Schlesinger o I ragazzi venuti dal Brasile-1978 di Franklin B. Shaffner), sorta di variante pseudopolitica dello stereotipo dello scienziato pazzo di certa science-fiction nordamericana. C’è ancora chi si interroga sul perché sia proprio l’America Latina il luogo di fuga per i criminali politici di tutto il mondo. Triste destino per un continente che alla naturale bellezza univa i sogni di grandezza, le visioni di un “mundo nuevo”. Gli orizzonti umani e fisici si restringono in luoghi angusti, dalla temperatura opprimente (Clouzot) oppure terre estranee dominate dalla presenza incombente (per uno yankee) di un vulcano (Huston). Miseria e disperazione, solitudine e alcolismo si rivelano subito segni di morte, riti funebri di una cultura decadente euroamericana priva di riferimenti certi ad eccezione, forse, del denaro e del piacere effimero dell’autodistruzione. Dunque l’idea della morte si mescola al desiderio e quest’ultimo alla follia, in uno spazio dilatato all’infinito, che è nascondiglio ed insieme “ultimo domicilio conosciuto”, oltre il quale si estende l’incognita della morte. Inoltre solo in Messico la morte diviene pretesto per il popolo per esprimere il proprio diritto alla follia.
Ma l’immagine di un Messico miserabilistico, inteso quale antitesi di quello più ostinatamente folkloristico, come esige un preciso canovaccio ideologico, non è certamente meno fuorviante. Dunque ad un film come Puerto Escondido (1992) di Gabriele Salvatores preferiamo un thriller americano come Traffic (2000) di Steven Soderbergh, dove la rappresentazione di un Messico, caotico, miserabile e corrotto, dialetticamente contrapposto all’ipocrita e legalitario mondo americano, è condotta sul filo di un realismo esemplare. Mondo “alto” e mondo “basso”, anche in senso geografico, si annullano reciprocamente nell’immoralità del cosiddetto “cartello della droga”.
Cosa vi è di più colonizzante di un modello estetico, di un genere cinematografico hollywoodiano come il musical, applicato alla storia politica argentina (l’ascesa al potere di Evita Duarte) ridotta ad un grande spettacolo di massa che vorrebbe invece rappresentare metaforicamente il dominio “universale” del potere mediatico sulle masse, come appare in Evita (1996) di Alan Parker?
2. Rivoluzioni
America Latina dunque come Giano bifronte. Decadenza e Rivoluzione; quella del Messico come modello e come mito. Due sole le figure che infiammano la coscienza popolare e l’immaginario collettivo, Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Eroi proletari. Nel trasferire l’idea di Rivoluzione nella nuova dimensione filmica, persistono due opposti atteggiamenti critico-stilistici. Da una parte il realismo epico lirico del Serghej Eisenstein di Que viva Mexico! (1932), dall’altra il realismo retorico biografico di un Elia Kazan (Viva Zapata-1952) o di un Howard Hawks (Viva Villa-1934). L’apologia della Rivoluzione e dei suoi massimi artefici fu per lungo tempo una costante dell’intellighenzia dell’Occidente capitalista, prima che esso stesso si degradasse a stereotipo di massa. La tendenza hollywoodiana al film biografico risulta ancor più funzionale su di un tema rivoluzionario. L’agiografia romantica dell’uomo “giusto” in eterna lotta contro i potenti, sia pur sostenuta dalla scrittura essenziale di un John Steinbeck, ignora la dialettica politica nelle più sottili sfumature, accentuando invece l’aura romantica e fatalistica che circonda l’eroe. Questa tendenza appare ancor più evidente in Viva Villa! (1934) di Jack Conway e Howard Hawks, opera che può vantare più di un’intemperanza visiva e apologetica dell’altro “eroe” della Rivoluzione, Pancho Villa. Esiste tuttavia un altro Messico, osservato con l’occhio dell’antropologo e dell’esteta rivoluzionario che mescola con statura epica la dimensione lirica del paesaggio con quella plastica dell’uomo.
3. La dimensione politica
La tendenza ad un cinema “sociale” e il cosiddetto “mito” della guerriglia latinoamericana, che dalla Bolivia all’Argentina infiammano il Continente infondendo ovunque speranze di un radicale cambiamento nel destino della società, spingono alcuni cineasti italiani ed europei come Gillo Pontecorvo (Queimada, 1969), Costi Costa Gavras (L’Amerikano stato d’assedio, 1972; Missing, 1982) e nei decenni successivi Haskell Wexell (Contras, 1985) e Ken Loach (La canzone di Carla, 1996) a ricostruire spesso in un precario equilibrio tra fiction e documentario episodi riguardanti la Rivoluzione sandinista in Nicaragua oppure la guerriglia tupamaros in Cile, come nel bellissimo L’Amerikano stato d’assedio scritto con metronimica perfezione da Franco Solinas. La dinamica del sequestro di Dan Mitrione (Montand), capo dei servizi della Cia, e del suo interrogatorio da parte di un commando guerrigliero fino alla morte è condotto sul filo della cronaca oggettiva dentro le cui geometrie si nasconde la volontà di un cinema “militante” che tuttavia resta ugualmente vincolato ad una sorta di compromesso estetico-formale. In altre parole troppe ingenuità e debolezza compromettono la maggior parte di opere in cui è evidente la tentazione del racconto che esige vi si adatti, che ne si rispettino le regole universali. Esemplare in tal senso è l’altro film “latinoamericano” di Costa Gavras, greco, residente negli Stati Uniti, Missing, che mette in scena un dramma famigliare, quello della middle class americana, nelle figure di un padre che va alla ricerca del figlio scomparso, in realtà ucciso dalla polizia di stato a Santiago del Cile, con l’aiuto della giovane moglie (Spacek) che lo ha seguito nella scelta di collaborare con i giovani democratici che lottano contro il regime. Così il conflitto generazionale e ideologico si concentra prevalentemente sulla figura del “vecchio” (Lemmon) che alla fine della vicenda, pur difendendo la dignità del suo paese, giunge a comprendere che esiste una complicità tra la dittatura locale e il governo USA.
In Queimada la trasparenza dell’apologo anticolonialista e antimperialista di ispirazione fanoniana viene un po’ offuscata e resa meno efficace da un intreccio macchinoso e dall’invadenza dell’attore-divo Marlon Brando.
L’ultima grande rivoluzione americana, quella dei Sandinisti in Nicaragua, è lo sfondo ideale per una vicenda che ancora una volta si basa sulla presenza “occidentale” nel continente latinoamericano ne La canzone di Carla. Sia i giovani protagonisti di Missing che quelli del film di Loach riflettono la posizione del regista, ossia intendono partecipare ad un cambiamento politico radicale, ma lontani da casa, poiché nell’Occidente euroamericano non vi sono più utopie né speranze rivoluzionarie. E’ il medesimo clima culturale di frustrazione e di scacco politico a dare vita a un cinema in un certo modo interessante, ma alquanto fragile, incapace di farsi reale strumento di autentica dialettica politica.
Ma esiste anche un soggetto “occidentale” destabilizzante, ossia destinato a sovvertire l’ordine sociale di un determinato stato in guerra in favore di interessi di potenti società nordamericane. Esso lo si può identificare ad esempio nella figura di Sir William Walker, avventuriero inglese (personaggio storico emblematico che verrà ripreso nel film di Alex Cox Walker-1988) in Queimada, ma anche in quella inventata del “gringo” nordamericano (Castel) che, fingendo di appoggiare la Rivoluzione messicana, in realtà agisce solo per il suo interesse personale che si concretizza nell’avidità, e nel western anomalo di Damiano Damiani Quien Sabe? (1966) che si segnalò per la brillante sceneggiatura del solito Franco Solinas.
Ma vi è un altro soggetto nordamericano, sospeso fra l’estraneità e la partecipazione ai fatti di cui è suo malgrado testimone, l’inviato speciale, figura o stereotipo che se per un verso riflette l’idea di sradicamento del protagonista dalla realtà sociale del proprio paese (Salvador-1986 di Oliver Stone), per l’altro riflette invece l’idea tutta americana di professionismo istrionico e scorretto (Sotto tiro-1983 di Roger Spottiswoode). Comunque in entrambi i film è il punto di vista dello yankee a prevalere sulla complessità tragica degli avvenimenti, sia che si tratti della barbara uccisione dell’arcivescovo Romero in Salvador, oppure l’esecuzione sommaria e gratuita di un periodista (Hackman) a Managua nella rivista nella rivoluzione sandinista, con dubbia spettacolarità con le vicissitudini private dei due reporter.
4. La dimensione letteraria
La seduzione che il romanzo latinoamericano ha messo in atto nel mondo occidentale fin dai tempi di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, non poteva certamente lasciare insensibile il cinema come strumento mediatico di trasformazione di codici estetici differenti. Sono curiosamente nordamericani i due cineasti che negli ultimi anni hanno tentato, con risultati non trascurabili, di “rileggere” due testi letterari complessi e in modi diversi delicati dal punto di vista ideologico. Si tratta comunque di opere ideologicamente discutibili, ma di indubbio peso letterario, che hanno radicalmente diviso la critica. Se La vergine dei sicari (1999) di Barbet Schroeter, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore colombiano di Medellin Fernando Vallejo è opera politicamente scorretta, di nichilismo radicale, ma stilisticamente interessante, Prima che sia notte (2000) del pittore e cineasta newyorkese Julian Schnabel, autobiografia dello scrittore omosessuale, esule cubano Reinaldo Arenas, suscita dubbi e perplessità per l’implicita critica alla società cubana in senso politico, e per l’incongrua recitazione in lingua inglese.
Ma ciò che più interessa è stabilire quella rete invisibile di relazioni tra il cineasta, l’autore del testo e la dimensione culturale da esso adombrata. La seduzione del paesaggio habanero e della libertà dell’artista “diverso”, sono gli elementi che stanno alla base dell’ispirazione di Schnabel, mentre è assai più difficile cogliere ipotetiche affinità culturali tra un regista come Schroeter e un autore cinicamente ambiguo come il colombiano Vallejo. Ciò che però avvicina i due film è la sensibilità stilistica che ne fa opere “vissute”, ossia forie di un’autentica ispirazione. E’ curioso notare come sul versante del cinema latinoamericano, in particolare argentino, avvenga il medesimo percorso, ma in senso opposto. Dal capolavoro dello scrittore francese Albert Camus, La peste, il cineasta argentino Luis Puenzo trae una versione cinematografica (1992) per taluni versi discutibile, tuttavia capace di in intuizione geniale: trasferire l’azione da Orano a Buenos Aires (che assume chissà perché lo stesso nome della città algerina) giungendo così a costruire una chiara metafora della dittatura argentina in cui si giunge all’equazione malattia mortale:vittime della dittatura e desaparecidos.
5. Stereotipi
Ve ne sono molti riguardanti l’immaginario latinoamericano e il suo spazio fisico e mentale. Primo fra tutti in ordine di tempo è il mito del superuomo di massa rappresentato dall'”agente segreto all’Avana”, protagonista del fortunato romanzo di Graham Greene. Anche in questo caso Hollywood si appropria del modello letterario, non solo adattando a sua volta lo script al clima storico, ma prendendo distanza dalle più autentiche istanze politiche come nel caso dell’ipocrita e blando Havana (1990) di Sidney Pollack. Quasi per contrasto con il primo ecco apparire nella produzione americana l’altro mito, quello della foresta vergine, incontaminata e insidiosa col quale, in età contemporanea, l’uomo civilizzato, sia esso un ragazzo (La foresta di smeraldo – 1985 di John Boorman) o un adulto scienziato (Mato Grosso – 1992 di John McTiernan) si confronta con essa, rivelando l’inadeguatezza dei propri strumenti umani. Tuttavia l’espressione e il tono dominante in queste opere davvero poco memorabili è quello di un idealismo che esaltando le qualità della natura e il carattere avventuroso della vicenda, perviene ad una prevedibile apologia delle semplici virtù tecniche e interpretative della insostituibile “macchina” hollywoodiana.
6. La dimensione musicale
Non si può infine dimenticare il potere di seduzione esercitato dalla musica latinoamericana in un cineasta spagnolo come Carlos Saura che in Tango (1998) ricorre alla formula classica, o, se si vuole, convenzione narrativa, del regista cinematografico che in crisi sentimentale decide di mettere in scena una storia di tango, la quale viene via via configurandosi come je accuse contro la dittatura.
Sul versante narrativo e stilistico opposto l’americano Leonard, fratello del più famoso Paul, con Tango nudo (1991) ambientato in una Buenos Aires sordida e irreale, distilla gli umori più sgradevoli e trucidi impliciti nella cosiddetta estetica dei bassifondi, laddove il mito del tango resta pur sempre conteso fra fuiletton e grand guignol.
*Il presente saggio è apparso nel 2001 sull’inserto culturale Verbigracia del quotidiano El Universal di Caracas.