IL TERRORISMO NEL CINEMA ITALIANO. Intervista a Gianni Amelio

CINECRITICA n. 17 (gennaio-marzo 2000)

IL TERRORISMO NEL CINEMA ITALIANO

 

“Non esistono angeli così perfidi,

solo gli uomini propongono due modi ugualmente crudeli

di morire.

Comunque gli direi: <<Dammi libertà e memoria.

Se non sei capace di tanto, mio caro angelo,

allora voli basso, neanche all’altezza della nostra sconfitta.>>”

Mario Moretti da “Brigate rosse, una storia italiana”

 

 

Che cosa significa filmare il terrorismo? Raccontare la violenza e il dolore, la clandestinità e la fuga. L’affabulazione si frantuma in una molteplicità prospettica, i punti di vista si alternano fra racconto soggettivo e narrazione oggettiva, il linguaggio è la variabile stilistica apportata dal lavoro di ogni singolo autore.

La prima volta che il termine “terrorista”, come sostantivo riferito ad una specifica condizione umana e politica, fa la sua apparizione in ambito strettamente cinematografico, è nel film (1963) di Gianfranco De Bosio dal titolo omonimo. Esso si riferiva al contesto clandestino della resistenza di cui il terrorismo non è che la moderna estremizzazzione ed attualizzazione del concetto di lotta permanente. Altrove vengono usati invece sostantivi come “banditi” (“Achtung banditi!” di Carlo Lizzani) e “gangsters” (“Gangsters” di Massimo Guglielmi). Nell’osservare attentamente le due differenti realtà storiche nelle loro rispettive rappresentazioni filmiche, diremo subito che mentre la prima (la resistenza) veniva originata da un unico movimento artistico ideologico, il neorealismo, che a sua volta ne assicurava l’unità d’intenti, la seconda (il terrorismo) invece si affida perlopiù a scelte stilistiche individuali che ne frammentano l’unità tematico-critica, sottraendo il racconto, pur con qualche eccezione, alla tensione morale della cronaca. Eppure si pone il paradosso della distanza storica, ossia del complesso rapporto tra la memoria storica che presuppone una coscienza critica dei fatti, delle cause e delle responsabilità, e la necessaria obiettività che proprio la distanza dal fatti reali esige. Un esempio, forse il più frequente ed evidente di superamento di tale paradosso, consiste nella risoluzione drammatica, ossia nella drammatizzazione del terrorismo, la sua intima spettacolarizzazione. Si noti l’ossimoro voluto a sottolineare l’ambiguità che spesso segna in modo inequivicabile non solo le opere più recenti, ma anche quante le hanno precedute, almeno dal lontano e fatidico 1977.

Si dovrà dunque distinguere fra differenti modalità di approccio al tema o se si vuole, alla materia offerta dal terrorismo. Un ruolo primario è giocato dalla pura affabulazione ossia trame narrative che procedono secondo schemi tradizionalmente legati al feulleton e al giallo.

In “Italia: ultimo atto” (1977) di Massimo Pirri (film che insieme a “Kleinhoff Hotel” [1977] di Carlo Lizzani inaugura la lunga serie di opere sul terrorismo) la figura del terrorista (Luc Merenda) viene presentata in una forma ambigua che innanzitutto sfrutta il carisma del “duro” nel poliziesco all’italiana. Egli si muove come un eroe tradito dai propri compagni in un susseguirsi di azioni più o meno violente, culminanti nella sua stessa esecuzione che trova un quasi picaresco contrappunto nella figura secondaria del terrorista aggregatosi al gruppo che vaga disperato e solitario, da un bar all’altro, da una strada all’altra, sino a quando, in un bagno pubblico, egli si masturba col mitra accanto.

Se il tema del tradimento diviene quasi una costante narrativa è perchè esso si qualifica come uno tra gli elementi più sfruttati in senso drammaturgico. Sebbene sia ben noto che nell’ambiente terroristico la delazione e il tradimento della lotta comune venivano punite con l’esecuzione capitale, di rado tale realtà trova nel cinema terreno per un’analisi delle condizioni di lotta e della dialettica che questo presuppone. Vi è piuttosto una certa insistenza a sottolinearne l’inutile ferocia senza tuttavia analizzarne le cause. Esiste come una sfocatura tra la volontà di indagine su un fenomeno di delicata importanza e gli effettivi risultati di tale indagine. Il film innanzitutto come atto estetico, pur tuttavia con delle eccezioni, stenta a trovare quella sintesi necessaria tra le istanze descrittive di una realtà specifica e quella del linguaggio. A fronte dell’offuscamento della lucidità critica che da sola può legittimare una scelta stilistico formale coerente, nascono opere incerte, in bilico tra romanzo borghese con squarci intimistici (certamente non nel senso suggerito dagli “Anni di piombo” – 1981 di Margarethe von Trotta) e un certo naturalismo descrittico che mal si accorda con la ricerca di un possibile linguaggio capace di cogliere la complessità del problema. In due opere tra loro diverse come “Kleinhof Hotel” di Carlo Lizzani e “La caduta degli angeli ribelli” (1981) di Marco Tullio Giordana è un’atmosfera decadente e ricercata l’elemento dominante dentro cui si dipana l’incontro tra il giovane terrorista in fuga, abbandonato dai compagni in una deriva fatale a Berlino. In entrambi i film contano più gli ambienti dei fatti; la camera d’albergo in cui si danno incontro la giovane e ricca signora e il terrorista della R.A.F. si trasforma in un luogo claustrofobico e al tempo stesso in un simulacro filmico che rimanda alle torbide atmosfere de “Il portiere di notte” (1974) di Liliana Cavani. Nel ricorso all’intimimismo erotico si stemperano la memoria del pubblico (nel senso di un possibile straniamento) e le tensioni morali su cui regge l’intero edificio del terrorismo. Nel film di Giordana è chiaro sin dal principio che l’incontro fra il terrorista napoletano e la giovane borghese si concluderà con la morte dell’uomo per mano di colei che ha amato; in tal senso il film si inscrive in quella logica decadente e aristocratica (anche il Paul dell'”Ultimo tango a Parigi” è una sorta di terrorista dell’anima) che vorrebbe il desiderio come il solo giudice finale.

Anche Marco Bellocchio con “Diavolo in corpo” (1984), opera che segna il sodalizio peraltro disastroso tra il regista e lo psocanalista romano Massimo Fagioli, tenta l’impossibile equazione erotismo-terrorismo contrapponendo, all’interno di una vicenda a dire il vero piuttosto risibile, scritta in collaborazione con Enrico Palandri, tra il terrorista pentito (il fidanzato di Giulia) e la coppia di irriducibili che chiusa in gabbia attende il verdetto. Mentre l’uomo declina attraverso sciocche poesie in rima il proprio desiderio di normalità e di mediocrità (l’essere finalmente come tutti gli altri) gli altri, gli irriducibili, invece nascondono due compagni che avvinghiati l’uno all’altro fanno l’amore come un gesto di provocazione totale.

L’eros al tempo stesso irrompe nella vita di Giulia come pulsione liberatoria o come un demone che non conosce limiti se non quelli stabiliti dalla sua follia. L’approccio freudiano-reichiano voluto da Bellocchio, che dedica personalmente il film a Fagioli, si limita ad un semplice enunciato che dietro la superficie provocatoria nasconde un vuoto inquietante.

Inoltre sorprende la versatilità dell’ex comunista Bellocchio, un tempo appartenente all'”Unione dei Comunisti Marxisti Leninisti”, capace di astruse interpretazioni del terrorismo di carattere psicanalistico e al tempo stesso di una rigorosa e appassionata ricerca “sul campo”, intorno alla dialettica del terrorismo, tra cronaca, Storia e pensiero politico. “Sogni infranti-Ragionamenti e deliri” (1995) è un film di montaggio realizzato in collaborazione con Daniela Caselli; attraverso diversi materiali di repertorio e interviste ad ex brigatisti rossi, i due autori ricercano un ordine logico nel caos delle ipotesi, delle strategie contrastanti e delle facili condanne politiche, il significato più profondo di un fenomeno ancor oggi per certi versi sconosciuto, la cui radice rimanda all’Utopia rivoluzionaria comunista e al suo inevitabile naufragio nelle derive della violenza.

Non esiste in queste opere un autentico punto di vista soggettivo che ne riveli i meccanismi politici e psicologici, nè tantomeno un’oggettività che si spinga sino alle soglie del documentarismo. Infatti il sostanziale fallimento di un’opera come “La mia generazione” (1996) di Wilma Labate (1) deriva essenzialmente dall’utilizzo indiscriminato di un personaggio e di uno schema narrativo svuotati di significato, a cui nella fase di stesura del testo viene data una “valenza” di emblematicità. Da una parte si ha appunto lo schema classico del road-movie che acquista il “segno” negativo del “viaggio inutile” mentre dall’altra ancora una volta è il personaggio dell’irriducibile, del duro (sempre nel calco della tipologia intepretativa di Claudio Amendola). Egli, accortosi di subire un ricatto vergognoso da parte delle autorità di polizia che a loro volta vorrebbero fare di lui un pentito in cambio della promessa di incontrare la sua fidanzata (Neri), con orgoglio virile (come si confà al suo personaggio) oppone un eroico rifiuto che lo ricondurrà di nuovo in carcere. Il viaggio su cui poggia l’intera struttura del film si rivela inutile anche sul piano della conoscenza reale del personaggio, ossia della sua identità di terrorista e di individuo. La Labate si limita piuttosto ad imbastire un dialogo “funzionale” tra il giovane terrorista e il poliziotto della scorta (Orlando) con il semplice intento di sostenere la tesi pessimistica, tuttavia verosimile, dell’impossibilità di comunicazione tra figure diverse e politicamente contrapposte (il terrorista e il poliziotto). Uno di essi, il rappresentante della legge, sarà costretto a “tradire” in nome, non dell’ideologia, ma di un ordine superiore che ritroviamo, procedendo a ritroso, nel film di Sergio Corbucci “Donne armate” (1990) dove la conflittualità si limita al rapporto-scontro (di intonazione americana e al tempo stesso televisiva) tra due donne, l’una poliziotto (Boschi) e l’altra terrorista (Sastri), riunite nello schema logoro della “scorta”, ossia del prigioniero scortato verso una destinazione già stabilita. La bellezza e il fascino delle due donne diventa motivo primario in una storia di fughe e di inseguimenti che goffamente preludono al formarsi di un legame di solidarietà femminile, su cui si sostanzia un racconto piuttosto insignificante; ancora una volta la psicologia e l’azione si sostituiscono alla riflessione sui meccanismi della lotta e della dinamica interiore di coloro che ne sono parte integrante. Dietro l’apparente libertà di confronto tra i due soggetti si cela comunque un atteggiamento moralistico di fronte al problema terrorismo che insiste sull’ammissione della colpa come forma di pentimento e di autoliberazione.

Clandestinità e normalità sono i poli opposti su cui si definisce l’identità del terrorista, figura questa che smuove le coscienze, suggerisce affabulazioni, seguitando a suscitare pena e sgomento e più spesso riprovazione. L’urgenza di raccontare vicende umane ispirate a fatti reali o immaginari avvenuti nei cosiddetti anni di piombo, purtroppo non si accorda spesso con la difficoltà di operare da parte dei registi scelte veramente coraggiose.

Qual è l’identikit del terrorista cinematografico? Un personaggio inventato, costruito sulla base di esperienze personali, testimonianze indirette su quella specifica realtà, oppure la controfigura di un personaggio reale che per ragioni retoriche dovrà essere la vittima: la figura di Aldo Moro (Volontè) nel film di Giuseppe Ferrara “Il caso Moro” (1986) o il giornalista Tobagi ne “Una fredda mattina di maggio” (1990) di Vittorio Sindoni.

<<I terroristi non hanno mica tre teste o i denti da vampiro, hanno imparato a sembrare persone normali>> afferma il giovane protagonista di “Colpire al cuore” (1983) di Gianni Amelio, alludendo proprio ad una possibile integrazione o mimesi del terrorista nella realtà quotidiana e addirittura familiare. Così infatti viene presentata la figura del professore universitario intepretato da Jean Luis Trintignant nella coraggiosa e intensa opera di Amelio. Al regista e allo sceneggiatore Vittorio Cerami non interessa tanto l’analisi del fenomeno, quanto le sue conseguenze all’interno di un contesto borghese colto. Da tali premesse potrebbe uscirne un ritratto intimo e convenzionale se i due autori non operassero un rovesciamento dialettico dei termini del confronto generazionale. I figli colti e rivoluzionari del ’68 vengono duramente giudicati dai giovani apolitici degli anni ottanta. E’ il figlio quindicenne, moralista e impassibile, a giudicare suo padre un semplice assassino, segnando così la sua condanna. Il film acutamente dilata il discorso proprio all’interno di una società rappresentata dal figlio quindicenne, senza più maestri nè ideologia, rassegnata al rispetto acritico del principio di autorità, di educazione e di irrigimentazione culturale. Il je accuse di Amelio è dunque rivolto alla pigrizia e all’ipocrisia dei docenti, dei baroni d’istituto, ma anche alla stupidità degli studenti stessi, mentre per altro verso si astiene nel dare un giudizio morale o politico sul terrorismo. Per questa ragione al film toccò la messa all’indice da parte di critici ottusi e benpensanti. Il film si chiude proprio laddove si apre “Il ladro di bambini”, ossia nel luogo fisico (un moderno condominio alveare) dello scandalo intimo e familiare; luogo dove si compie il doppio tradimento: il figlio verso il padre e il bambino verso la madre che prostituisce la figlia. Terrorismo e prostituzione minorile, come una sorta di virus che, come l’AIDS, viene nascosto, taciuto, prima che esso venga rivelato pubblicamente. Il film di Amelio si svolge sin dal principio sul confronto tra due soggetti e due sensibilità differenti e non tra due verità antitetiche in un incedere intimo e dimesso, basato sull’accumulo di dettagli apparentemente insignificanti e sulla progressiva scoperta della colpevolezza del padre da parte del figlio. In un dialogo di apertura tra i due viene subito rivelata la natura timida, scontrosa e priva di spirito del figlio, incapace, ad esempio, di ridere di una storiella umoristica mentre in un’altra sequenza, giustamente memorabile, girata di notte nella piazza di Bergamo alta, è il padre a rinfacciare al giovane la sua mediocrità e la sua cinica ignoranza di giustiziere.

Invisibilità e riconoscibilità sono due condizioni essenziali e complementari dell’esistenza terroristica, la cui esistenza di compenetra con la consapevolezza dell’azione come definizione di una scelta aprioristica. E’ un percorso razionale, un meccanismo di precisione che non lascia alcun margine all’improvvisazione, intesa come deviazione dal disegno originario. Sono gli “invisibili” descritti dallo scrittore Nanni Balestrini, trasferiti sullo schermo da Pasquale Squitieri, vano indagatore delle ragioni, delle cause di una deriva tragica, attraverso la testimonianza di una sorta di pentito che ha rifiutato la lotta armata, ma tuttavia si mostra sensibile e attento alle “lezioni” del suo “maestro” che adombra con evidenza la figura di Toni Negri. Populista e verboso, il film rischia in più sequenze un’eccessiva spettacolarizzazione; Squitieri distilla la cronaca raccontando le presunte verità e i risvolti più condivisibili, giungendo così a compromettere la complessità del romanzo a cui si ispira. Vi è infatti una distanza perlomeno singolare tra lo spessore linguistico letterario del testo, l’origine ideologica del suo autore, con la reale statura artistica e morale del regista napoletano. Così il film rivela la sua natura di traduzione nient’affatto letterale di un delicato clima politico riletto da un’irriducibile populista scettico.

Dall’invisibilità come condizione in fieri si giunge all’evento riconoscibilità che diventa ne “La seconda volta” (1996) di Mimmo Calopresti una vera ossessione persecutoria. Ne è interprete un insegnante universitario di Torino (un Nanni Moretti accigliato e implacabile) che riconosce in una giovane donna (Bruni Tedeschi) incontrata sul tram la terrorista che molti anni prima gli aveva sparato alla testa. Il morettiano Calopresti al suo esordio come regista imbastisce una storia esile, mesta, volutamente sottotono, i cui esiti migliori risiedono nella descrizione di una città anonima dove la casualità irrompe nella vita degli uomini obbligandoli a ricordare, a testimoniare il proprio passato di vittime e di carnefici. La Storia irrompe nella quotidianità ridisegnando i vecchi ruoli dimenticati. Calopresti mostra di rifiutare la regola del perdono e costruisce l’ipotesi di un confronto serrato tra un uomo ostinato nel voler ricordare le responsabilità della ex terrorista nel suo ferimento (egli ha ancora il proiettile nella testa) e una giovane donna profondamente turbata che vive tra il lavoro e il carcere, decisa invece a rimuovere quei tragici fatti. Uno scontro di silenzi e di voci in una realtà divenuta più anonima e senza ideali che si chiude senza vinti nè vincitori, entrambe figure concrete del tempo presente.

Nelle opere degli ultimi anni tra le quali ci piace annoverare “Le mani forti” (1997) di Franco Bernini, l’idea del terrorismo è come rimossa in una sorta di limbo personale dove esso sembra riapparire piuttosto come un peccato originale da espiare attraverso la parola, mentre nei film degli anni ottanta come “Segreti segreti” (1984) di Giuseppe Bertolucci o nella stesso “Colpire al cuore” di Amelio il terrore pareva, anche per ragioni storiche, connaturato all’ambiente borghese. Lo si legge sin troppo in trasparenza nel film dove la giovane terrorista (una Lina Sastri che riscrive un ruolo già interpretato, ma in chiave borghese) coltiva la lotta armata come un “vizio” tra le pieghe di un’esistenza protetta e insospettabile. E’ la serpe in seno ad un mondo privo di valori di riferimento che nelle sue frange intellettuali riscopre il nichilismo dei “Demoni” come contravveleno alla noia e allo scacco politico. Ma come s’è già detto, ad Amelio non interessa questo tipo di analisi pur tuttavia concentrandosi su un ritratto di conflittualità generazionale dentro quel medesimo contesto.

Nel film di Bernini, invece, è la parola a contestualizzare la rabbia e i crimini commessi in nome dell’ideale rivoluzionario; attraverso lo psicodramma di alcune sedute psicanalitiche un finto giornalista (che ha il volto di Amendola) rivela a poco a poco alcune verità su una strage compiuta negli anni sessanta nella quale aveva perso la vita la sorella della psicanalista (Neri). La ricerca nella psiche dell’altro si trasforma in scoperta del tempo degli affetti irrimediabilmente perduto. Ma il film dell’ex sceneggiatore Bernini, dopo un inizio rigorosamente geometrico che esplora la dimensione dialogica come spazio rivelatore di un altrove oggetto di rimozione, via via finisce per confondere pubblico e privato, identità confuse e identità rivelate in una strana mescolanza di generi (lo psicodramma, lo spionaggio, la commedia drammatica) senza tuttavia raggiungere una sintesi convincente, capace realmente di illuminare le zone d’ombra dell’uomo contemporaneo posto di fronte alle proprie responsabilità morali.

Dalla fiction alla cronaca: un finto passaggio dal momento che il peso della finzione è più imbarazzante laddove degli attori sulla scena di via Fani (“Il caso Moro”) o del centro di Milano (“Una fredda mattina di maggio”) si sforzano di somigliare ai loro “modelli” irraggiungibili perchè morti, perchè reali, comunque vittime di forze generalmente ritenute cieche. Se l’istant movie di Giuseppe Ferrara già appariva fiacco e prevedibile all’uscita sugli schermi, proprio per quella volontà di fare del giornalismo visivo, ossia di voler dire e ricostruire tutto (la decisione di compiere il sequesto, colloqui con lo statista, processo sommario, e la morte) piuttosto che tentare una possibile interpretazione, in “Una fredda mattina di maggio” è possibile scorgere un punto di vista più critico nel tentativo di descrivere gli stretti rapporti di complicità che intercorrono tra certi ambienti della borghesia milanese e il terrorismo. Oltre ad una ricostruzione realistica, per nulla di maniera, del clima arroventato e nel contempo oscuro di quegli anni, il film illumina una zona d’ombra definita dal tentativo di integrazione nella banda armata di un giovane proletario che aspira ad una promozione che non è soltanto sociale, ma soprattutto politica.

In opere come “Roma, Paris, Barcelona” (1990) di Grassini e Spinelli oppure “La festa perduta” (1981) di Piergiuseppe Murgia la realtà del terrorismo è narrata come un’esperienza per così dire esistenziale: una prepotente espressione dell’io che invade la Storia di tutta la violenza e la passione di cui è capace; una scelta terminale e conclusiva di un lungo percorso etico-politico drammaticamente segnato dall’infrangersi dell’utopia contro l’efficacia e la durezza del regime. Segmenti di ideologia marxista e nichilista, schegge impazzite di un’anima (quella della Rivoluzione) e gesto terroristico inteso come costruzione logica della disperazione, divengono nel film di Spinelli e Grassini un’avventura fenomenologica dell’io nell’incognita persistente di un viaggio quasi inziatico attraverso i segni fisici di un paesaggio urbano che sembra tuttavia sottrarsi agli oscuri richiami all’ordine, alle trame e ai codici di un linguaggio da cui il resto del mondo viene escluso. Se ne “La festa perduta” la condizione di clandestinità di uno dei personaggi-amici che si incontrano dopo anni di lontananza è rievocato come un “già vissuto” che suggerisce, anzi, presuppone un giudizio, in “Roma, Paris, Barcelona” invece l’azione e il giudizio sull’azione (l’omicidio come strategia rivoluzionaria) avvengono in contemporanea; la distanza temporale tra i due film e tra essi e i fatti che vanno inquadrati nei cosiddetti “anni di piombo” non riduce affatto il potenziale di attualità e soprattutto di lucidità del film dei due giovani registi romani che si avvalgono della collaborazione di Laura Morante nella stesura della sceneggiatura. Girato in un suggestivo bianco e nero sul canovaccio del road movie, ossia viaggio verso la deriva estrema dell’assassinio, il film si apre con una sequenza di guerriglia urbana: siamo alla fine degli anni settanta (come avverte la didascalia). Renato, che vive in clandestinità a Parigi, conserva dentro di sè quelle immagini come l’ultima testimonianza di una dimensione umana della lotta politica.

<<C’è una logica che mi ha portato fin qui, una logica a cui non credo più>> dichiara Renato alla sua amica francese prima di mettersi in viaggio per Barcellona insieme a Francesco e Lucilla, due compagni di lotta che in realtà vorrebbero escluderlo ormai da qualsiasi operazione. <<Siete isolati, la maggioranza della gente è contro di voi.>> Sono parole che egli rivolge agli amici, durante una conversazione sulla Senna. Da Roma a Parigi, da Parigi a Barcellona si conclude il viaggio inutile di un dissociato, un escluso dal gioco del terrore. Segnato, dal punto di vista linguistico formale, dal cinema del primo Wenders e dallo stile fenomenologico di “Professione reporter” (1974), è nell'”episodio barcellonese” che viene concentrandosi la massima tensione stilistico narrativa: la città acquista un suo “peso” minaccioso (le Ramblas deserte, gli oscuri vicoli del Barrio Chino) culminante nello splendida sequenza girata nella Plaza Major, spazio reale e al tempo stesso metaforico nel quale i tre “amici e compagni” devono incontrarsi, ma non si incontrano, dove infine la realtà oggettiva (il furtivo scambio di droga tra i ragazzini) e lo sguardo soggettivo sulla realtà, finalmente coincidono. L’isolamento di Renato nella camera di un infimo albergo è reso ancor più agghiacciante da ripetuti primi piani di stilizzato rigore del protagonista dormiente o immobile che ne circoscrivono sempre più l’angoscia. Quel senso di tensione fisica e morale rappresentato dall’incognita del viaggio e della sua inutilità, di cui il film è permeato, non si allenta neppure nella sequenza dell’assassino girata al ralenti come un sogno angoscioso che negando al protagonista testimone la stessa presenza degli amici scomparsi ridefinisce lo spazio fisico e mentale dell’uomo in senso claustrofobico. Solo col fotostop finale sul protagonista inseguito dalla polizia la dimensione liminare della fuga si confonde con quella della morte come ideale assoluto.

Alla dimensione umana e politica dei fuoriusciti a Parigi (con l’indiretto riferimento alla figura di Toni Negri e di altri meno illustri), si ricollega l’opera prima di Marco Turco, già aiutoregista di Gianni Amelio “Vite in sospeso” (1998), prodotto dalla Rai e vincitore della Grolla d’Oro a Venezia.

Se in alcune opere recenti il terrorismo è poco più di un canovaccio sul quale incastrare “un’altra” storia dai tratti più riconoscibile, nel film di Turco l’intima radice psicologica si sostituisce alla razionalità politica e alla dialettica in qualità di strumento conoscitivo. Parigi 1988: un ragazzo di Roma giunge col padre nella metropoli francese per incontrare il fratellastro, un exterrorista fuoriuscito che insieme ad altri compagni si è rifatto una nuova esistenza sebbene viva nella paura dell’estradizione.

Quello di Marco Turco è un cinema che sfiora la confessione intima innestandola in un più complesso rapporto tra l’individuo e la storia, e in un confronto dialettico tra due fratelli (l’uno protagonista, l’altro osservatore) dove è più rinvenibile l’influenza di “Colpire al cuore” di Gianni Amelio

Nel film è inoltre avvertibile un’urgenza fin troppo ostentata di dire, di capire tutto (con lo stile diretto dell’intervista), mentre è l’azione ad essere trascurata (nell’accezione più ampia) come fosse bloccata da un’oggettiva condizione di stallo, sorta di “fine del gioco”, sebbene vi sia la reiterata immagine (in realtà mai vista) dell’uccisione di un dirigente industriale.

La fragilità del mondo “chiuso” dei fuoriusciti, turbato dalla presenza di un elemento estraneo al gruppo, il fratello di uno di loro, è descritta con stile asciutto, incline all’improvvisazione, tuttavia preciso e geometricamente rigoroso, che rivela l’origine documentaristica del film.

Un’opera che nasce dal profondo senso di colpa per i delitti commessi in nome di una giustizia sociale, di un’utopia che presto si infrangerà a contatto con la realtà quotidiana. E’ il dramma morale ed esistenziale di chi si chiede, come nell’intenso e malinconico finale, cosa è accaduto veramente, che cosa siamo stati una volta e chi siamo ora!…

Note

1) La regista venne arrestata, insieme a Paolo Lapponi e Andrea Lapponi, cosceneggiatori del film, nel 1982 perchè appartenenti alle Unità Comuniste Combattenti e condannati a 30 anni senza avere mai ucciso nessuno.

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Il saggio prosegue con una conversazione con Gianni Amelio sul tema del terrorismo nel cinema.

M.F.M: Qual è la sua personale visione del terrorismo e quale influenza ha avuto nella realizzazione di “Colpire al cuore”?

G.A.: “Colpire al cuore” è nato, forse questo spiega molte cose, dall’idea di fare un film sul fenomeno del terrorismo, e ho avuto subito paura del tema, che in qualche misura è ancora caldo. Chi mi fece questa proposta si aspettava che io raccontassi dall’interno il terrorismo, come qualcuno ha fatto nella seconda metà degli anni ottanta, ossia pretendeva di raccontare i terroristi. Io nè allora nè adesso saprei raccontarli.

M.F.M.: Il suo è stato, in fondo, un gesto di umiltà.

G.A.: Si, certo, ma nella consapevolezza di quelli che erano i miei limiti e al tempo stesso dell’ampiezza di un certo tipo di mondo che io posso affrontare mettendomi al centro di esso. Non ovviamente guardandomi l’ombelico, cercando, invece, di essere uno dei tanti, non perchè io voglia essere protagonista di un fenomeno, ma essere parte di questo fenomeno. Se io non riesco ad essere come mi accadeva col terrorismo, allora cerco di essere parte di questo problema. Un fenomeno è infatti qualcosa che accade e può non essere a contatto con te. Ci sono dei fenomeni che neppure ci sfiorano senza quindi modificare il nostro giudizio; allora dovremmo sforzarci di essere influenzati da tutto ciò che accade, che in fondo è la nostra vita. Per quanto mi riguardava consideravo allora il fenomeno terrorismo abbastanza lontano, mentre sentivo il problema terrorismo molto vicino a me. Questo fatto tocca moltissimo gli stessi terroristi, ma ancor più coloro che non lo sono, ma di tale fenomeno sentono il peso. Allora io ho risposto alle persone che mi proponevano di fare un film sul terrorismo che lo avrei fatto volentieri, ma non un film sul fenomeno che non conosco e non capisco, specialmente in quel periodo, il 1980, ancora troppo vicino alla cronaca. Il film si sarebbe dovuto girare nell’inverno dell’80, poi invece è passato tutto l’81. In quell’anno a Venezia un altro film sul terrorismo “Anni di piombo” di Margartethe von Trotta, ottenne il Leono d’Oro; nella primavera dell’82. Ho girato il film dopo un anno e mezzo di attesa dovuta a ragioni di carattere economico.

M.F.M.: Il suo film vede la luce dopo altre opere sullo stesso tema che sono “Kleinhoff Hotel” di Carlo Lizzani, “Italia ultimo atto” di Massimo Pirri,

G.A.: Direi che sono film in cui, se si sposta il fenomeno terrorismo, si può benissimo sostituire con un altro tema affatto diverso.

M.F.M.: Film dove il terrorismo diventa l’elemento pretestuoso per un’escursione nel cinema di genere poliziesco e quello erotico internazionale.

G.A.: Penso piuttosto a “Maledetti vi amerò” di Marco Tullio Giordana che mi pare sia uscito nel 1980.

M.F.M.: ….A “La festa perduta” di Pier Giuseppe Murgia oppure “La caduta degli angeli ribelli”…..

G.A.: Però nel film di Giordana il terrorismo viene visto come qualcosa di molto a latere; credo di essere stato forse il primo ad affrontare il problema, ossia a mettere in scena un conflitto in un contesto che non era quello specificatamente terroristico. Tant’è vero che il terrorista del film (Trintignant) è quanto di più anomalo ci si possa aspettare da una figura come questa. Di solito si immagina che un terrorista debba essere qualcuno con un certo tipo di atteggiamento violento, truce, che in qualche modo ha scritto in faccia “sono un terrorista”. Il mio personaggio, invece, lo presento come un individuo pacifico, borghese illuminato che s’intende di rose, che parla di esse in rapporto alla sua infanzia; egli conosce perfino un tango argentino degli anni trenta. Non appartiene all’iconografia classica del terrorista, con il figlio il quale ammette che i terroristi non hanno 3 occhi, 4 nasi e 7 corna, non sono degli alieni. Tutto è visto da un ragazzo, visto da qualcuno che si interroga su tante cose sino a giungere a delle risposte; egli ha un’età in cui le domande sono d’obbligo. All’epoca del terrorismo vi era una domanda che tutti si facevano, soprattutto i giovani: perchè tutto questo accade intorno a noi? L’aria che si respirava era veramente pesante. L’interrogarsi dei giovani sulla realtà introduce l’altro tema del mio film: quello della memoria storica. Chi non ha memoria storica è più fragile di fronte a fenomeni che accadono, specialmente se crudi e violenti.

M.F.M.: Cosa l’ha spinta a scegliere una città del nord come ambientazione del film? Perchè la città di Bergamo?

G.A.: Bergamo non è la città in cui il terrorismo agisce, semmai è il rifugio poetico e ancestrale, la culla dell’infanzia dei giochi infantili. Egli nella camera della madre conserva perfino il vecchio trenino elettrico e i vecchi giocattoli del padre. Tutto ciò è il segnale di un uomo che non sa crescere, che non può crescere, nè tantomeno riesce ad essere padre di suo figlio. Vi sono poi nella seconda parte del film momenti in cui il figlio vorrebbe essere padre di suo padre.

M.F.M.: Per la figura del padre terrorista, insegnante che odia il conformismo dei colleghi, il terrorismo allora diviene l’ultimo rifugio contro l’età adulta? Ciò significa considerare tale fenomeno come una sorta di gioco terribile….

G.A.: Certo, credo che vi sia nel padre un difetto di sfiducia nella realtà e nella propria idea di maturità.

M.F.M.: Io credo che il tema principale del film sia proprio il conflitto generazionale dialetticamente rovesciato.

G.A.: Questo è ciò che più facilmente si vede; in realtà bisogna chiedersi le ragioni profonde di tale capovolgimento di ruoli in un momento storico in cui vivono i protagonisti del film.

M.F.M.: Io credo che il padre nel suo porsi nei confronti delle istituzioni, prima fra tutte quella dell’Università, riflette la cosiddetta cultura barricadiera del ’68….

G.A.: Io aggiungerei anche un pò salottiera.

M.F.M.: Comunque essenzialmente borghese… Il figlio invece appartiene di fatto alla generazione degli anni ’80 che per vocazione è apolitica e moralista.

G.A.: Direi anche un pò giustizialista. Ma più che di rovesciamento di ruoli, parlerei piuttosto di due forme di debolezza contrapposte. Dario, il padre, è un uomo che fa della propria debolezza una specie di alibi. La stanchezza e il disincanto che egli mostra in tutto il film lo rende reticente nei confronti delle richieste, degli interrogativi del figlio.

M.F.M.: Dal film non emerge alcun giudizio o condanna del terrorismo.

G.A.: Da non terrorista, da non protagonista di tale fenomeno mi mettevo esattamente nell’equidistanza tra colui che eludeva una possibile collusione con quel fenomeno (il padre) e colui (il figlio) che chiede spiegazioni che non gli vengono date.

M.F.M.: Il film fu da più parti accusato di disfattismo.

G.A.: E’ vero, però il produttore, che era Paolo Valmorana della RAI, nonostante si dichiarasse pubblicamente democristiano, mostrò fiducia e coraggio nel voler realizzare un progetto come questo. Vorrei dire inoltre che prima di chiederci se i terroristi siano buoni o cattivi, dobbiamo dire che essi sono il frutto della medesima società nella quale noi tutti siamo nati. Per questo noi siamo in qualche modo implicati in un fenomeno che erroneamente riteniamo estraneo e lontano.

M.F.M.: Si è spesso parlato della difficoltà del cinema italiano a raccontare il terrorismo dall’interno.

G.A.: Io non credo che si debba per forza capire un fenomeno, analizzandolo dall’interno, perchè quello sarebbe una pretesa eccessiva e che non necessariamente porterebbe alla comprensione delle cose. Anche se io dall’interno non riesco a capire nè a rappresentare il terrorismo perchè esso sfugge alla mia esperienza culturale però questa stessa esperienza non può fare a meno di approfondire il fatto che io sto vivendo questo momento storico e quindi ho a che fare con gli effetti di tale fenomeno.

M.F.M.: Nel film lei ha infatti puntato sugli effetti prodotti dal fenomeno terrorismo.

G.A.: Io ho puntato assolutamento su quello che era poi il mio ruolo. Così come era il ruolo di chiunque vivesse in quel preciso momento storico. La nascita di “Colpire al cuore” è stata anche dovuta al fatto che io non ho mai accettato la demonizzazione del terrorismo. Credo che nel film questo si avverta in una maniera totale.

M.F.M.: E questo è il lato provocatorio del film.

G.A.: Certamente, per questo il film fu così rifiutato come qualcosa di disturbante. Se c’era un’aria che spirava nel film era quella di dire che il terrorismo non è il demonio, non è il male. Per molti io avrei dovuto dare, invece, una sorta di Bignami moralmente scontato.

Molti infatti hanno forzato la scrittura del film sostenendo che esso parla di un figlio che giustamente denuncia il padre terrorista.

M.F.M.: Io non ho mai pensato che fosse “giustamente”.

G.A.: Ma questo è evidente nel film.

M.F.M.: A dire il vero quel figlio è piuttosto antipatico.

M.F.M.: Ma assolutamente. Il finale è infatti di una violenza e di una crudezza dolorosa. Verrebbe voglia innanzitutto di prendere a schiaffi questo ragazzo.

M.F.M.: A proposito del finale, io ho scritto che “Colpire al cuore” finisce nello stesso luogo dove inizia “Il ladro di bambini”.

G.A.: Certo, questo è vero. Vi è il medesimo schema espressivo.

M.F.M.: Entrambi i film si chiudono e si aprono con una sorta di scandalo morale.

G.A.: Non si sa bene se nasca proprio dallo stesso gesto. Io me ne sono accordo nella fase successiva alla realizzazione del film, in fase di montaggio, perchè spesso le cose uno le fa e non le ha subito chiare in testa, ma più tardi, quando il lavoro è finito.

M.F.M.: L’anno scorso a Venezia viene premiato con la Grolla d’Oro il film “Vite in sospeso” di Marco Turco, che, a quanto mi risulta, è stato in passato suo collaboratore e aiuto regista. Lei ha visto questo film o ne conosce la genesi?

G.A.: Non l’ho visto, quindi non potrei parlargliene. L’unica cosa che so è che è un film a sfondo autobiografico. So che Marco Turco aveva già girato per la RAI un documentario “Vite sospese”, che parla di ex terroristi che stanno a Parigi e vivono nella paura dell’estradizione.

M.F.M.: Degli ultimi film italiano sul tema del terrorismo come “La mia generazione” di Wilma Labate, “La seconda volta” di Mimmo Calopresti o “Le mani forti” di Franco Bernini si può parlare di un’unica tendenza al ritratto intimistico a posteriori?

G.A.: Io credo che si possano riunire in un’unica tendenza: sono trascorsi molti anni da quei fatti tragici e dunque il loro punto di vista sulla realtà, l’atteggiamento creativi e critico degli autori risulta protetto da questa distanza. Devo dire che mi sembrano film interessanti e in qualche modo anche importanti, tuttavia credo che questi film arrivino un pò in ritardo sulla storia. Adesso si racconta il terrorismo ad una distanza ancora più grande di quella che esisteva tra la realtà della Resistenza e alcuni film come “Tutti a casa” di Comencini che quei fatti tentava di rievocare.

M.F.M.: Ad unire queste opere è anche una sorta di pudore verso il tema del terrorismo, visto quasi come un peccato originale. C’è forse dell’ipocrisia in tale visione.

G.A.: Non si tratta solo di pudore, ma di reale urgenza espressiva. Non si dovrebbe parlare di un argomento solo perchè esso è importante o significativo. Io credo invece che la spinta sia il bisogno di chiarirsi l’oggi, ossia il momento in cui stiamo vivendo. Oggi io non farei mai un film sul terrorismo per una semplice ragione: mi sembra un argomento che in un certo senso abbiamo già assimilato, talmente assimilato da essere, se noi lo affrontiamo, una maschera, un falso problema, qualcosa dietro cui noi ci rifugiamo per raccontare una storia importante, pur tuttavia eludendo quello che è l’oggi.

M.F.M.: Lei non ha mai smesso di essere un regista critico, un regista “contro” come si diceva una volta.

G.A.: Sono contro l’appiattimento della sensibilità, non solo quelle individuali, ma anche politiche. In questo senso mi ritengo un regista profondamente politico.

M.F.M.: Ma non nell’accezione propria degli anni settanta, alla Petri per intenderci.

G.A.: Quel modello è abbastanza lontano da me; quando racconto una storia la voglio radicata in uno spazio e in un tempo definiti, voglio anche cercare di capire perchè essa veramente accada.

 

Cronologia del cinema del terrorismo

 

1977 Kleinhoff Hotel di Carlo Lizzani

Italia: ultimo atto di Massimo Pirri

1980 Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana

1981 La festa perduta di Pier Giuseppe Murgia

La caduta degli angeli ribelli di Marco Tullio Giordana

1982 Colpire al cuore di Gianni Amelio

1984 Fuga senza fine di Gian Andrea Pecorelli

Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci

1986 Il caso Moro di Giuseppe Ferrara

Il diavolo in corpo di Marco Bellocchio

1988 Gli invisibili di Pasquale Squitieri

1990 Roma, Paris, Barcelona di Paolo Grassini e Italo Spinelli

Donne armate di Sergio Corbucci

Una fredda mattina di maggio di Vittorio Sindoni

1993 La fine è nota di Cristina Comencini

1995 La seconda volta di Mimmo Calopresti

1996 La mia generazione di Wilma Labate

Vite sospese di Marco Turco (documentario)

1997 Le mani forti di Franco Bernini

1998 Vite in sospeso di Marco Turco