IL CINEMA DELLA CRISI

CINECRITICA n. 24 (ottobre-dicembre 2001)

FICTION E UTOPIA: IL CINEMA DELLA CRISI

Il cinema è davvero, come da più parti ancora si sostiene,

una conferma dell’alienazione?

Dinanzi alle immagine che esso viene, cioè,

negata allo spettatore la possibilità dell’indugio,

l’intervento benefico della riflessione?

Il regista si limita a rispecchiare, fotografare la natura,

o vede cose e uomini secondo l’anima sua,

dando alle inquadrature una struttura e un significato personali?

Guido Aristarco da L’utopia cinematografica

Oltre la perdita dell’Utopia, altro non resta che la fiction cinematografica.

Di questa illuminante metafora, che traiamo dalla sequenza finale di uno strano film serbo di Slobodan Pesic, Il caso Harms (1988), in cui alla morte del poeta segue lo svelamento della fiction (segnata dalla presenza del set e dello stesso regista) a testimoniare che il cinema procede nel proprio cammino, voyeuristicamente, oltre i limiti della Storia, esiste una precisa interpretazione. Essa riguarda più da vicino la crisi cui il cinema è giunto dopo lo smarrirsi dell’utopia rivoluzionaria e del linguaggio artistico come sperimentazione di nuove forme, con la definitiva egemonia del mercato globale. Oggi gran parte del cinema nel mondo occidentale si è ormai stabilizzato su valori autoreferenziali, riproducendosi velocemente per germinazione di idee riflesse che a loro volta rimandano a varianti continuamente riproposte dalla cosiddetta “politica dell’attore”. Questo significa, ad esempio, che per il cinema nordamericano attuale, perlopiù costruito sulla personalità e sull’identità del divo di turno, salvo alcune eccezioni come il bellissimo, barocco e indipendente The dead man di Jim Jarmush (1998) e davvero pochi altri, non resta appunto che la ricerca nel digitale, di cui è ovviamente all’avanguardia, e nella virtualità (come insegnano alcuni esempi recentissimi). A questo stato di cose, che segna inevitabilmente la morte del cinema come appunto utopia e avanguardia nel progresso delle idee, reagiscono i critici specializzati, esperti mandarini, attribuendo valori specifici e meriti a qualsivoglia prodotto presente sul mercato e imposto da esso stesso.

Tuttavia nell’ambito dei festival internazionali essi si trasformano (forse per farsi perdonare) in scopritori di talenti raffinati e di opere rare che spesso a loro soli è dato di vedere! E allora le disquisizioni su questi fenomeni naturalmente si moltiplicano …

Assistiamo impotenti ad una sorta di formalismo di ritorno che, se alle proprie origini disquisiva sui valori formali in rapporto alle idee, oggi si limita a discutere o a compiere linguisticamente analisi talvolta confuse e velleitarie su semplici questioni di primi piani, raccordi, carrelli, panoramiche, etc.

Tramontata per sempre anche la cosiddetta “politique des Autores” (così in Francia come in Spagna, in Germania come in Italia), intesa più come unità di intenti linguistico-formali che come avventure individuali, si cerca tuttavia da più parti di procedere verso una semplificazione critica utilizzando il criterio selettivo del consenso popolare, ossia della quasi unanimità. Esso tenderà inevitabilmente ad oscurare magari singole poetiche di autori ritenuti difficili per un pubblico di massa che si qualifica sempre più come giudice inesorabile. Ma il compito della critica più avveduta resta pur sempre quello di illuminare le zone d’ombra dell’immaginario filmico che spesso tuttavia, come scrisse Franz Kafka, ci impedisce di guardare.

In tal senso si creano “casi” come quello di Nanni Moretti, celebrato autore “assoluto” con un fin troppo sopravvalutato La stanza del figlio (2001) o di un Pedro Almodóvar con l’altrettanto fragile e sopravvalutato Todo sobre mi madre (1999), entrambi vincitori di premi, che si impongono ai pubblici di tutta Europa. Ad unire in un eguale destino film tra loro così diversi è l’uso strumentale del sentimento, entro una prospettiva programmaticamente anti intellettuale, ricalcato sul comune sentire degli spettatori, ossia basato più sul senso comune piuttosto che sulla effettiva complessità umana. Al rifiuto di quest’ultima, intesa quale cifra significativa del tempo che stiamo attraversando, si contrappone l’intercambiabilità dello stereotipo che per sua natura infonde sicurezza.

Per un cineasta autentico sarebbe sempre opportuno evitare il rischio delle immagini retoriche e per taluni versi demagogiche. Nell’icona del padre e del figlio che corrono insieme, ormai entrate nell’immaginario collettivo, Moretti, intendendo evidenziare non tanto ciò che è stato prima della morte del figlio, quanto invece ciò che avrebbe potuto essere, imprime un’eccessiva drammatizzazione al tema centrale della morte. In altre parole il regista italiano perviene ad una sorta di demagogia del sentimento assoluto che è appunto il dolore. L’analisi di entrambe le pellicole (che rimandiamo ad uno spazio più appropriato) introduce un altro tema necessario, quello dell’emozione come prova tangibile della qualità di un film. Vi sono infatti emozioni che non possono essere spiegate né tantomeno ricondotte ad una sola dinamica e ad una sola intensità.

In tale direzione va inoltre inquadrato il culto ormai diffuso in Italia per la cinematografia hongkonghese (di cui esiste già un inizio di letteratura critica) che si basa sull’intreccio efferato di melodramma e di noir, in nome di una vera e propria deriva irrazionale. L’uso della passione senza più la mediazione stilistica o la ragione estetica dentro cui questa viene formandosi.

In tale prospettiva ci si interroga su quale possa essere la funzione dei classici europei e americani, o dei cosiddetti “moderni”, della grande tradizione del muto, nella formazione di un pensiero critico che sappia essere all’altezza dell’oggetto del proprio studio. Se il cinema possiede una ricca memoria storica, è necessario che essa si incarni appunto nei processi critici e al tempo stesso creativi verso un nuovo equilibrio tra forma e interpretazione. Il film esca dunque dall’oblio delle cineteche segnando una “nuova” fase nell’evoluzione del pensiero cinematografico, che oggi si limita a identificare perlopiù i valori espressivi e formali col massimo della loro leggibilità e semplificazione. Nel ridare linfa ad un panorama euroamericano ormai divenuto asfittico, contribuiscono le cinematografie “minori” del terzo mondo (Africa, Asia, America Latina) e del mondo arabo. Per un irresistibile bisogno di esotismo, malattia infantile dell’intellighenzia occidentale, si scopre la cinematografia iraniana che annovera autori di rilievo come Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, e Amir Naderi. Un fenomeno ritenuto alla moda si trasforma per fortuna in una ricerca che culmina nella compilazione di studi critici e cataloghi monografici, a fronte della nostra cultura morente. I cineasti iraniani, ma anche gli Africani, ci invitano dunque alla riscoperta della lentezza (concetto filosofico mirabilmente espresso da Italo Calvino nelle Lezioni americane e dallo scrittore ceco Milan Kundera nel suo romanzo intitolato appunto La lentezza) e dunque del piano sequenza, delle radici dell’agire umano in una prospettiva che non è soltanto antropologica, ma anche e soprattutto universale. L’uomo ricongiunto agli elementi essenziali del proprio esistere sulla Terra.

Se infine il cinema latinoamericano soffre oggi della mancanza di progettualità comune, di manifesti programmatici o rinnovate correnti stilistiche, l’immagine che di essa viene trasmessa in Italia risulta pura frammentazione. Finite le spinte rivoluzionarie, il mito dell’America Latina in Europa si è un po’ appannato, tuttavia ciò non impedisce che “schegge” di cinema “engagè” (come fu sempre considerata questa cinematografia), quali ad esempio Garage Olimpo (1999) di Marco Bechis, Central do Brasil (1998) di Walter Salles, Amores perros (2000) di Gonzales Inarritu., Prima che sia notte (1999) del pittore e regista americano Julian Schnabel, ma tratto dal romanzo cubano di Reinaldo Arenas, La Cienaga (2000) dell’argentina Lucrecia Martel o infine il cinema dell’argentino Fernando Solanas o del messicano Arturo Ripstein, possano testimoniare una presenza attiva nello sviluppo delle idee elaborate al di là del mare Oceano. Sappiamo inoltre che l’interesse per il mondo latinoamericano può ridursi a semplice moda se non supportato da valori etico-politici e sociali, come è ampiamente dimostrato dall’enorme successo, oltre i propri meriti, di un film documento come Buena Vista Social Club (1998) di Wim Wenders. Le radici di questo cinema vanno ricercate nella scuola messicana degli anni cinquanta, e in particolar modo nel Buñuel messicano, in quella cubana, sviluppata sotto l’egida della Rivoluzione, e quella brasiliana del cinema “novo”, ma volendo fare un’ulteriore ricerca a ritroso nel tempo, si dovrà tenere conto, ad esempio, della suggestiva ricerca formale di una Margot Benacerraf, regista venezuelana, autrice di un memorabile documentario Araja (1959) che ha il respiro di un classico. Non per nulla a Cannes, dove fu presentato, ci fu qualche critico che lo paragonò al capolavoro di Luchino Visconti La terra trema.

Tuttavia da questi paesi “minoritari” apprendiamo ugualmente una lezione etico-linguistica di primaria importanza: l’estetica della realtà mescolata alle singole poetiche individuali.