IL NUOVO CINEMA D’ANIMAZIONE TRA POESIA E MERCATO

CINECRITICA n. 56 ( ottobre-dicembre 2009)

IL NUOVO CINEMA D’ANIMAZIONE TRA POESIA E MERCATO

A tutti i personaggi che popolano la fantasia dei bambini

Il cinema d’animazione è la scatola magica di tutti i sogni infantili, in grado, oggi, di sostituire la tradizione del racconto orale e della fiaba popolare di cui spesso è una trasposizione più o meno fedele, fissandosi definitivamente nell’immaginario del bambino-spettatore, che a sua volta si trasforma nel destinatario privilegiato di un immenso mercato di sogni, i quali assumono sempre di più sembianze familiari.

Talvolta, invece, straordinari, inquietanti o persi o…mai viste!.

Tuttavia è altresì indiscutibile che l’animazione, nella sua accezione più strettamente narrativa (con l’ovvia esclusione dell’animazione astratta circoscritta alla sperimentazione di pochi autori classici e contemporanei), sia portatrice di messaggi di spiccata natura sociale o ecologista e di una morale non più così consolatoria come accadeva con la quasi totalità dell’opera di Walt Disney. Per non parlare poi dei valori estetico-formali presenti nel cinema animato europeo e in parte anche in quello giapponese.

Due sono gli elementi con i quali confrontarsi per una possibile disamina storico critica. Il primo riguarda la nascita, negli Stati Uniti, del computer graphics, ossia dell’animazione digitale tridimensionale, collocabile, più o meno intorno alla fine degli anni novanta (il primo film realizzato interamente con quella tecnica, Toy story di Richard Lesseter, è del 1995), sebbene già nel 1991, il disneyano La bella e la bestia, di Gary Trousdale e Kirk Wise, venisse realizzato con ampio uso della 3D, in un contesto ancora conforme alla tradizione.

Il secondo invece, fa riferimento al persistere, soprattutto in Europa, nelle stessa Italia e nel Canada, in taluni significativi autori come Enzo D’Alò, Michel Ocelot, Sylvain Chomet, ma se ne potrebbero menzionare molti altri, ma anche di registi nipponici come Hayao Miyazaki o Katsuhiro Otomo, dell’animazione cosiddetta tradizionale.

Innanzitutto è necessario un confronto fra le due modalità tecnico-espressive, senza il quale è impossibile comprendere il peso di quella che viene comunemente considerata un’autentica rivoluzione tecnologica.

Altrettante sono le ragioni di tale rivoluzione, oggi al culmine delle proprie possibilità espressive: la prima, di natura economica, complementare al processo evolutivo della tecnologia dell’animazione che dalla tecnica del disegno manuale è passata a quella digitale a tre dimensioni; la seconda riguarda, per così dire, l’espressione in sé dell’animazione, nel suo procedimento imitativo rispetto al reale, il quale, inevitabilmente giungerebbe perfino a completare il processo di antropomorfizzazione avviato dall’animazione classica disneyana.

Non è dunque certamente casuale che quasi tutti i protagonisti della nuova animazione nordamericana (di produzione Pixar o Dreamworks), siano parte integrante di una sorta di bestiario post-moderno (cui partecipano formiche e altri insetti, galline, orsi, mucche, ratti, pesci, pinguini, mammouth, panda e ancora, mostri, automobili e giocattoli che si animano di una vita propria).

Ma la loro umanizzazione, rispetto alle opere classiche, è il risultato dell’introduzione di elementi “critici” inediti, frutto della necessità di aggiornamento tematico, in senso etico-sociale.

Questo non impedisce affatto di sostenere e di difendere il disegno animato e per una ragione molto semplice: anziché avvicinarci alla realtà o ad una copia di essa, il disegno, al contrario ci trasmette il senso della diversità rispetto al reale, l’altro reale che si cela dietro le apparenze delle cose animate. Si è stati più volte tentati di servirsi della seguente equazione: il cinema d’animazione sta a quello narrativo come il fumetto alla letteratura. Niente di più errato. Esso possiede indubbiamente una propria identità autonoma, al punto da diventare, nel corso della sua lunga storia, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione di nuovi linguaggi, ponendosi essenzialmente come la sintesi originale di arte cinetica (il cinema) e arte figurativa (pittura, grafica). Proprio per questa ragione crediamo che la nuova tecnica tridimensionale, sia un passo indietro rispetto a quella, per così dire, tradizionale. Tuttavia non pare metodologicamente corretto ed efficace stabilire un confine o una separazione fra le due tecniche e linguaggi, sebbene proprio su questo dualismo, oggi si misura il confronto tra la cinematografia statunitense e quella europea.

Ciò che maggiormente caratterizza tale cinema, ancora molto attivo, lo ripetiamo, prevalentemente in Europa, è l’utilizzo di personaggi umani quasi sempre in procinto di compiere viaggi o incontri con mondi “altri”, perlopiù fantastici (Myiazaki) o con strane creature, non necessariamente appartenenti al mondo fiabesco.

In entrambe le opzioni filmiche, è comunque avvertita un’esigenza di rinnovamento adeguata alla nuova sensibilità infantile, che è il prodotto della progressiva trasformazione del costume sociale, dei suoi comportamenti e della sua cultura.

Nel caso dell’animazione digitale sembrano essere fondamentalmente due gli elementi su cui si focalizza il nuovo spettacolo animato: la difesa dei diritti dei più deboli (A bug’s life-il mondo dei giocattoli) e quella dei valori reali e nascosti rispetto al mondo effimero delle apparenze (Ratatouille). O più genericamente, il diritto alla libertà per ciascuna creatura vivente (si pensi, ad esempio, al parossismo della descrizione delle galline da batteria, imprigionate come in un vero e proprio lager-Galline in fuga). Proprio in quest’ultimo cartoon, il livello di imitazione del reale produce un effetto quasi parodistico, rispetto al senso tragico che la realtà di riferimento esprimeva. Per altro verso, l’estremo virtuosismo tecnico messo in atto in un opera come Wall-I, di produzione Disney-Pixar, produce un altro effetto che potremo definire di autoreferenzialità, nell’accumulo di riferimenti e citazioni anche letterali a una serie di generi cinematografici hollywoodiani. Creatura lieve della fantasia dei nuovi animatori americani, il robottino protagonista, frugando nella spazzatura degli umani, scopre perfino il musical hollywoodiano come possibile rimedio alla noia e alla solitudine.

Il vero punto focale della nuova animazione americana, risiede in due elementi che ne costituiscono la struttura e la forma: il primo riguarda, appunto, il costante riferimento performativo ai parametri di genere “hollywoodiani” del cinema, per così dire, di realtà, con al centro, un eccesso di antropomorfizzazione delle figure animali, il secondo, invece, alla schematicità di narrazioni e di personaggi, nella pretesa affermazione di una scala di valori che li caratterizzano, determinandone i conflitti. In altre parole, il nuovo personaggio eroe a tre dimensioni, pensa, parla e lotta sempre più come un essere umano in carne ed ossa, pur tuttavia faticando ancora a farne propria la complessità.

Ritroviamo quindi forme di manicheismo proprie della cultura nordamericana, sebbene esse siano riempite con contenuti diversi, prese da un lessico contemporaneo aggiornato dove compaiono termini come ambiente, ecologia, libertà, diversità…!.

In un altro film molto celebrato, Ratatouille, 2007, emerge un altro possibile limite del 3D: ossia il prevalere dell’idea di imitazione del reale su quella di realismo, che, per sua natura è frutto di un’interpretazione. Prendiamo, ad esempio, le scenografie degli esterni; la Parigi dei boulevard e delle case del Quartiere Latino, per effetto del computer graphic, sono così tangibili, da sembrare vere. L’elaborazione tecnologia prevale sulla fantasia artigianale e quindi, sull’immaginario infantile. Sorge il dubbio che in gran parte la ragion d’essere di questo cinema si basi sulla giustificazione della sua stessa tecnologia, imponente e costosa.

Semmai l’interesse suscitato dal film andrebbe piuttosto ricercato nell’intuizione primaria, ossia nell’aver saputo sapientemente coniugare l’orrore comune per i ratti con l’attribuzione ad uno di essi, protagonista assoluto del racconto, della qualità e il privilegio di chef clandestino in un ristorante raffinato, sconvolgendo, per così dire, i codici del gusto.

Con tutto ciò non si intende affermare che non vi possano essere espressioni di creatività e di invenzioni autentiche, ma queste, potrebbero essere, magari, ricercate nell’uso di tecniche miste o in latitudini culturali diverse rispetto ai territori dell’animazione controllati da multinazionali come la triade Disney-Pixar-DreamWorks. Se analizziamo attentamente le due opere prese ad esempio, (la prima è tra le pioniere di questa tecnologia, mentre la seconda si rivela un autentico capolavoro di sottigliezza descrittiva e ironia), non possiamo non rilevare come entrambi i nuclei narrativi non solo siano strettamente legati ma ancor più conseguenti al principio etico generale che li informa.

Si può affermare che l’animazione, di fatto, sia il luogo fisico e mentale in cui è avvenuto e avviene costantemente l’incontro tra il bambino e l’adulto entro una prospettiva di interscambio: il primo si avventura attraverso le immagini animate ad una prima visione e comprensione del mondo, mentre il secondo, creando figure immediatamente comprensibili per un bambino, al tempo stesso riscopre il bambino che è in lui.

Quindi, è innanzitutto necessario ripensare una nuova, possibile lettura dell’animazione filmica anche alla luce di questo nuovo elemento dialettico.

E’ altresì verità indiscussa il fatto che la grande industria dell’animazione americana, abbia scelto la computer graphic come proprio linguaggio esclusivo, laddove la tecnologia stessa diventa espressione autoreferenziale, com’è altrettanto vero che altresì l’animazione d’arte o di ricerca tenda essenzialmente ad utilizzare le tecniche tradizionali pur con qualche incursione nella tecnica mista. L’avvento della terza dimensione cancella l’invenzione pittorica, il segno grafico che reinveste le forme dando loro un’armonia differente rispetto alle dinamiche plastiche, basate sul principio di verosimiglianza naturalistica. Il pupazzo animato pretende di essere sempre più vicino al vero, quando in realtà, più ci si discosta dalla fedeltà alle forme reali e più si riappropria dell’anima di storie e personaggi.

Al di là dell’analisi delle singole opere (oggetto di un futuro saggio), va detto infine, che non vi saranno mai una conoscenza e una comprensione complete dell’animazione filmica, se si continuerà a privilegiare il prodotto commerciale, pur meritevole di attenzione, a discapito di una messe notevole di autori, non solamente europei, (1) che da decenni lavorano sulle superfici bi-dimensionali, inventando racconti visivi o sperimentando nuove forme espressive, oggi neglette, in quanto nessuno mai si sognerebbe di proiettarli entro circuiti commerciali, né altresì di metterli su supporti elettronici (dvd), disponibili sul mercato.

Quindi è piuttosto difficile, se non impossibile, valutare la globalità delle espressioni che di fatto appartengono all’animazione contemporanea, se non basandoci su alcuni esempi significativi che tuttavia ci consentono di tracciare un possibile percorso della creatività animata nel presente.

La definizione di animazione d’autore non è più, altresì sufficiente alla comprensione del paradosso di un’animazione univoca, per così dire ad una sola dimensione spettacolare e e in tecnica digitale, la sola, a detta di molti, ad essere in grado di produrre capolavori. E’ quindi innegabile che, parlando di cinema d’animazione italiano, un Enzo D’Alò sia effettivamente un autore come allo stesso modo lo sono Guido Manuli (Aida degli alberi, Johann Padan e la descoverta dellle Americhe) o Giulio Cingoli (L’eroe dei due mondi), (che si ostinano peraltro a voler semplicemente rappresentare la sola alternativa di mercato, si badi bene, allo strapotere della triade Pixar-Disney-DreamWorks) come possono dirsi altrettanto registi nord americani come Brad Bird (Il gigante di ferro, Ratatouille), John Lasseter (Toy story) e in misura ancor più evidente Tim Burton (Nightmare before Christmas). Si tratta piuttosto di una questione squisitamente estetica che pone in campo la conoscenza e la consapevolezza storica e critica di poetiche e di tecniche d’animazione tra le più svariate. E’ sin troppo chiaro che in una situazione di mercato culturale come quella attuale, non vi è alcuna possibilità di discorso globale che investa ciò che intendiamo come sedimento storico linguistico ed estetico del cinema d’animazione (non più solo ed esclusivamente cartone animato) a oltre un secolo dalla sua invenzione. In altre parole vi è il rischio di escludere definitivamente quella pluralità di linguaggi animati (sviluppatisi attraverso tecniche come il decoupage, lo stop motion, i pupazzi, e molte altre) che non solo constituiscono l’evoluzione di questa particolarissima e difficilissima forma d’arte ma anche la stessa contemporaneità, sia pure resa letteralmente invisibile da una strana forma di oblio che riunisce presente e passato, nella medesima incomprensibile indifferenza.

Quindi, dietro la ormai annosa contrapposizione tra tradizione (tecnica bidimensionale) e post-modernità (computer graphic e 3D), si cela non solo la perdita della memoria storica ma ancor peggio il rifiuto sistematico di accettare una pluralità di linguaggi che in quanto tale svelerebbe una sorprendente ricchezza di scuole e di stili (si pensi soltanto al cinema dell’Est europeo con l’opera di autori come i polacchi Ian Lenica e Walerian Borowzcyk, il russo Yuri Nirestejn, la triade boema costituita da Karel Zeman, Jiri Trnka e Jan Svankmejer), o a quello canadese che vanta due figure d’eccezione come Frederic Back, (autore del bellissimo L’uomo che piantava gli alberi) e Caroline Leaf e, naturalmente, il grande Norman McLaren, o ancora la Mitteleuropa degli svizzeri Georges Schwizgebel e Jocken Kuhn, entrambi in possesso di un solido background pittorico (ed entrambi sconosciuti nel nostro paese) o l’Italia di Giulio Gianini e Lele Luzzati (2) e di giovani autori indipendenti come Enzo Gioanola, Ursula Ferrara e Gianluigi Toccafondo (3), noto ai più solo per la sigla animata di Fandango!. Autori, stili e tecniche che pur persistendo anche nel presente, continuano ad essere sistematicamente ignorati non solo dalla stragrande maggioranza del pubblico, non soltanto italiano, il quale non ha proprio compreso innanzitutto che anche dall’assidua sperimentazione linguistica possono nascere dei capolavori, anche se in forme brevi di corto e mediometraggio (come stanno a dimostrare gli innumerevoli, talora eccellenti esiti di cortometraggi (sia in 3D che in bidimensionale), provenienti da diverse scuole di cinema e da festival nazionali e internazionali), che la sperimentazione, oggi, è, forse, ancora possibile proprio nel cinema d’animazione (proprio in virtù della sua grande libertà espressiva, per cui si potrebbe perfino affermare che esso rappresenti per davvero l’idea di fantasia al potere) e anche nel documentario.

Refrattari alle mode e alle strategie di mercato, la loro opera resta pur sempre in attesa di essere scoperta, anche al di fuori dell’ambiente dei Festival specializzati Altrimenti ci si dovrà, ancora per molto tempo, accontentare di applaudire l’ennesimo capolavoro nordamericano d’animazione dalla tecnica prodigiosa ma più spesso in odore di serialità.

Si potrà infine obbiettare che opere recentissime come Persepolis di Vincent Paronnaud o Valzer con Bashir, dell’israeliano Ari Folman, abbiano per così dire rotto il muro del silenzio imponendosi con la loro raffinata qualità artistica nelle sale cinematografiche su ampie porzioni di mercato. Ma è altrettanto vero che entrambe le opere sono mosche bianche, frutto di circostanze eccezionali in cui (cosa davvero rara nel mondo dell’animazione), l’elemento politico in entrambi casi autobiografico e quello più propriamente umanistico, trovano una perfetta unione.

Se da più parti ci si augura che vi siano sempre di più opere come queste, con altrettanta ostinazione si continua ad affermare (lo ha fatto recentemente Enzo D’Alò) che l’animazione non è imitazione della realtà ma, al contario, dominio assoluto della fantasia. Sebbene, aggiungiamo noi, la fantasia sia già implicita nel procedimento stesso del disegno animato, ossia dell’invenzione disegnata del reale.

Se il primo riportava all’attenzione sia la questione della libertà in un paese islamico come l’Iran, oggi di nuovo messa a dura prova, e al tempo stesso la natura del rapporto che si stabilisce tra l’estetica della graphic novel e quella dell’animazione, il secondo invece, pur nell’accurata riproposta di un disegno dal tratto raffinato e nell’introduzione dell’elemento documentaristico, apparentemente estraneo alla dimensione naturale dell’animazione, delude proprio laddove tenta invano di approfondire un discorso politico scegliendo di omettere linguaggio e dialettica del conflitto israelo-palestinese, a vantaggio in un faragginoso psicologismo individuale che agita la perdita della memoria come sostitutivo di un improbabile senso di colpa.

Note

1. Una fonte biografica utile alla conoscenza, almeno sulla carta, di questi autori, può essere il volume Animation Now!, 2007, un testo trilingue, riccamente illustrato, scritto da autori brasiliani, organizzatori del Festival dell’animazione di Rio de Janeiro, il più importante del settore.

2 Figura singolare quella del genovese di origine ebraica Lele Luzzati, scenografo, illustratore e ceramista, insieme a quella di Giulio Gianini, direttore della fotografia e regista, autori di un interessante e per taluni versi ammirevole filmografia che ha i suoi vertici espressivi in cortometraggi come Pulcinella e Il flauto magico.

L’uso della tecnica del decoupage basata su figurine ritagliate e disegnate da Luzzati, che rimanda visibilmente al teatro delle marionette che a quello delle ombre (cui, a sua volta si richiama l’opera della regista tedesca Lotte Reininger), e il costante riferimento, nei testi, al teatro d’opera e alla novellistica classica europea (da Marco Polo a Carlo Magno) e orientale, viene, a torto, confinata nel limbo delle espressioni elitarie e quindi antimoderne.

Nel 2001, Genova ha dedicato alla totalità dell’opera di Luzzati un museo all’interno della cinquecentesca Porta Siberia. dove si svolgono tra l’altro,mostre, seminari e proiezioni. Un museo “aperto”, interattivo che contribuisce, con i propri mezzi e modalità, alla conoscenza dell’opera cinematografica del maestro Luzzati attraverso bozzetti, scenografie, storyboard e, naturalmente, i film d’animazione.

A-Tube Globanimation Film Festival, nel 2010 dedicherà all’opera di Luzzati una retrospettiva e una mostra.

3. Noto più per le sue collaborazioni con Fandango e per le copertine di libri di alcuni grandi editori che per i suoi cortometraggi, (in particolare quello dedicato a Pasolini, Vivere o morire è la stessa cosa; ma sono suoi anche i quattro inserti animati del film dal vero di Rolando Colla Una vita al rovescio), Gianluigi Toccafondo incarna a buon titolo la figura dell’autore d’animazione indipendente dalle grandi strutture produttive ed estraneo all’idea di animazione “di consumo”. La sua tecnica, non dissimile da quella usata da Frederic Back, si basa essenzialmente sull’idea di metamorfosi, ossia del farsi e disfarsi continua dell’immagine disegnata a pastello.