SNUFF MOVIE: IL FANTASMA E IL TABU’

CINECRITICA n. 26 (aprile-settembre 2002)

SNUFF MOVIE: IL FANTASMA E IL TABU’
Filmare la morte

Di questo oggetto misterioso, oggetto proibito, lo snuff movie, si può affermare che esso sia ormai parte integrante della fiction cinematografica attraverso la quale diventa oggetto trasfigurato, ossia un logo ulteriore del proprio universo di immagini “proibite”. In 8mm. Delitto a luci rosse (8mm-1999) di Joel Schumacher, ad esempio, si parte dal semplice postulato che esiste una pellicola dove si praticano tortura e omicidio senza simulazione, tuttavia per accertarne la veridicità, perciò la ragione stessa del suo esistere nel film, si procede alla ricerca della vittima da lungo tempo scomparsa, una giovane aspirante stellina di Hollywood. Lo stesso riferimento alla Mecca del cinema introduce l’equazione metaforica sogno=morte, nella quale è possibile cogliere un’implicita critica ad un sistema che a sua volta rimanda ad opere sul cosiddetto decadentismo hollywoodiano. Ma ancor più interessante è la geografia bipolare che il film suggerisce, anzi definisce; New York-Hollywood, ossia la mente e la merce, la produzione e lo sfruttamento. Nel definire la collocazione newyorkese vi è un preciso sottinteso che si riferisce alla dimensione underground della cultura cinematografica della Big Apple, ma in una particolare accezione; dunque, sempre che ne si accerti l’esistenza, lo snuff movie può essere inteso, in un’ottica cinicamente hollywoodiana, come una sorta di appendice degenerata dell’avanguardia, la cui logica presuppone non solo il concetto di improvvisazione, ma anche di casualità, come è più leggibile nella sequenza chiave di Occhi di serpente (Snack eyes-1993) in cui tra i due attori protagonisti avviene un atto sessuale non simulato, essendo saltato il dispositivo psicologico che regola appunto il comportamento degli attori. Per trasformare l’idea dello snuff-movie in prodotto cinematografico consumabile da ampie fasce di pubblico Joel Schumacher e i suoi sceneggiatori costruiscono un thriller sul possibile omicidio di una ragazza accentuandone così la fruibilità e la leggibilità in chiave dichiaratamente manichea. In altre parole, per gli autori il solo modo di affrontare il tema dello snuff in un contesto filmico di carattere popolare, perciò di grande visibilità e soggetto a censura. In realtà è lo stesso approccio psicologico narrativo a determinarne la lettura. Il fatto che ne venga privilegiata una “di genere” conferma la volontà di ammorbidire l’impatto “morale” di una materia “proibita” in quanto “nuova” incorporandola in una struttura “persuasiva” e comunque capace coi propri valori semantici di ridurne l’eventuale contenuto eversivo, ossia il suo essere una no fiction. E’ altresì evidente che l’oggetto strano e misterioso non poteva essere ignorato dalla omnicomprensiva fabbrica di miti e di stereotipi sociali e morali che è appunto Hollywood. Assistiamo dunque al semplice travestimento di una tipica situazione chandleriana in cui un novello Marlowe (interpretato da un inespressivo Nicholas Cage) è chiamato a risolvere un caso complicato (in realtà più semplice di quanto sia in apparenza) che significa anche stabilire se lo snuff esiste o se sia solo una finzione perversa, o se si vuole una “trovata” per stimolare menti malate (i cosiddetti porno-zombi), spacciando loro a caro prezzo fiction per verità. Il maggior grado di verità si ottiene dunque col il più crescente livello di finzione. E lo spettatore contemporaneo partecipa a tale paradosso con i suoi sensi. Egli stesso si trasforma in omicida durante la proiezione di un film in cui un assassino, un infermiere che in realtà si crede un chirurgo, si diverte a cavare gli occhi ai suoi pazienti (Bigas Luna-Angoscia, 1986). La verità della finzione si basa dunque sull’inganno che è il piano inclinato su cui regge la complicità tra il pubblico e l’immagine. Siamo allora alle soglie della pura virtualità che presuppone e definisce il superamento di tale complicità. L’io manipolatore, finalmente, della fiction. Il nostro investigatore si trova senza rendersene conto di fronte ad un duplice problema morale ed estetico. L’indagine sulla ragazza presunta morta può condurre in due opposte direzioni: quella morale dove, dimostrando che la ragazza è viva si afferma la non esistenza dello snuff, e quella estetica dove la scoperta della morte della ragazza ne esplicita l’esistenza.

Siamo di fronte ad una questione di realismo, nella morale ipocrita che genera paura scavando nella coscienza individuale e in quella collettiva, sebbene lo snuff appartenga, come del resto il cinema stesso, alla categoria della merce, collegato perciò ad un sistema globale di sfruttamento, che l’etica stessa del protagonista viene a legittimare. Per questo il postulato di partenza dell’indagine è che certamente lo snuff non esiste, poiché in realtà esso non dovrebbe esistere. Egli stesso se ne convince proprio quando si ritrova in uno di quei locali equivoci di vendita dove nessuno sa dove siano gli snuff. La regia, pur non dilungandosi sui dettagli dell’ambiente riesce ugualmente a coglierne l’atmosfera di torbida malattia. Gli è accanto la sua “guida” nell’universo “basso” della videopornografia, il suo pusher di immagini, mentre il suo spirito non è dissimile da quello che animava la figura del padre borghese (interpretato da George C. Scott) che, disperato, va alla ricerca della figlia perdutasi nei bassifondi della pornografia in Hardcore (Hardcore, 1978) di Paul Schrader. Entrambi perseguono un identico scopo, che è quello di salvare una giovane vittima dalla dissoluzione morale e fisica. Essi inoltre si somigliano nelle reciproche funzioni, del denaro e della famiglia, pertanto i due risvolti narrati saranno necessariamente complementari poichè traggono origine dalla medesima ideologia conservatrice. Entrambi infine seguono un percorso accidentato che condurrà loro verso la verità della vita e della morte, ma non alle intime ragioni del bisogno di pornografia. La stessa parola snuff è tabù, ossia bandita dagli stessi faccendieri del mercato nero. Esiste solo nella testimonianza diretta delle immagini. E’ come un segreto che chiede di essere scoperto soltanto da chi è disposto a portarne i segni di orrore e di morte.

Un’analoga percezione della casualità come eccezione si ha forse nel film di Kathryn Bigelow Strange days (Strange days,1995) dove tra i clip di “vita reale” contrabbandati dal protagonista vi sono autentici snuff in cui la violenza e l’omicidio vengono esercitati con freddezza da manuale. Anch’essi sono collegati (ecco un’altra analogia fra il film di Schumacher e la Bigelow) ad un’ipotesi narrativa di genere, con al centro un discografico assassino e schizofrenico. Questa sorta di prodotto avariato prende il nome di black jack (sorta di oggetto misterioso che è come una mina vagante sulla testa di schiere di clipdipendenti o elettrozombi, mentre lo snuff di 8mm è custodito come una reliquia nella cassaforte di un miliardario deceduto) destinato a sconvolgere le percezioni di ogni singolo spettatore. Neppure questo venditore di “pezzi di vita altrui” non è poi così lontano dall’investigatore ficcanaso che collega tra loro le vite della gente seguendo una logica criminale e psicologica che riconduce al primitivo ordine delle cose. Ma tuttavia ciò che distingue i due personaggi (la medesima differenza che facemmo tra il mostro investigatore e il Marlowe chandleriano) è fondamentalmente la differente percezione dei valori umani e della realtà umana. Marlowe vive la propria disillusione con ironico e virile distacco e il mondo che gli gravita intorno è pervaso di ambiguità, mentre il nostro investigatore annaspa nel buio del vizio più recondito come un neofita, uno scolaretto alle prese con un universo che non è in grado di spiegare. Inoltre egli ha una moglie a casa che lo aspetta col bambino in braccio, novella Penelope. Essa tuttavia ignora quale sia la natura del “viaggio” intrapreso dal suo sposo.

Si tratta di un’immagine iconica che per affinità elettive rimanda all’archetipo pittorico presente nel bellissimo racconto dello scrittore colombiano Fernando Lleras de la Fuente (1947), Mathias van de Cruys o dell’apologia del realismo (1), in cui un pittore fiammingo, animato da furore e passione, per imprimere maggiore realismo alle sue opere ricorre al delitto, ossia alla verità del sangue per creare il proprio capolavoro. Ecco una perfetta prefigurazione pittorica, ma riportata in forma di scrittura da uno scrittore latinoamericano della nofiction contemporanea, dello snuff movie. L’arte trascende i propri limiti non per diventare un puro oggetto senza storia, situabile ovunque tra gli oggetti quotidiani oppure privati e oscuri a cui non è consentito accedere. E’ in questo territorio off limits che la morte diventa pure seduzione. In Il coraggioso (The brave-1997) di Johnny Deep assistiamo ad un approccio differente all’idea della “morte in diretta”. Qui lo spettatore diventa protagonista assoluto; ma ciò che più conta sono le ragioni morali che precedono la volontà di “essere dentro” uno snuff; essere parte di esso. E’ dunque interessante stabilire un confronto fra i due personaggi e il loro comportamento di fronte alla morte come arte che è al tempo stesso morte dell’arte: il nostro investigatore e l’indiano disoccupato, interpretato dallo stesso Deep. Innanzitutto entrambi sono americani, ma socialmente estranei. L’uno si pone al servizio di ricchi committenti, perciò esponenti della classe dominante, mentre l’altro è un emarginato sociale, un diverso perché indiano. Diretto è il suo confronto con la morte, privo di emozioni, come di fronte ad una regola implacabile riservata ai dannati della terra. Per l’investigatore di Schumacher lo snuff è l’incognita di una ricerca ordinaria, per l’indiano invece un’opportunità per riscattare la propria famiglia dalla povertà attraverso la propria morte. Nel film di Deep non accade nulla, il paesaggio è statico come i gesti dei personaggi; non vi sono presunti omicidi o morti da identificare, ma una sola morte, la sua che è un implicito je accuse verso la società che ha prodotto non soltanto lo snuff, ma anche verso coloro che di esso si nutrono come una droga.

Al contrario della studentessa che sceglie deliberatamente di condurre a termine una tesi sulla violenza delle immagini essendone in realtà morbosamente attratta in Tesis (Tesis, 1996) dello spagnolo Alejandro Amenábar, all’indiano ripugna la violenza e neppure le immagini televisive scalfiscono la propria estraneità al mondo dei bianchi, pur facendone anch’egli parte, che appunto di immagini shoch si nutrono. Tuttavia, ma in fondo non vi è contraddizione alcuna, egli si incammina verso la morte con stoica rassegnazione, come scheggia impazzita di quell’ingranaggio e al tempo stesso come la figura paterna di Giuseppe il nutritore dei propri figli di Thomas Mann.

E’ curioso notare come due descrizioni ambientali, ossia il luogo dove vengono girati gli snuff, in fondo coincidano: grandi docks, magazzini vuoti o set in disuso, sorta di parafrasi caricaturale di certi ambienti underground dove la marginalità diventa spazio elettivo poiché, come si è già detto, lo snuff è un’appendice degradata dell’underground Ma vi è ancora una differenza: se il regista di 8mm viene descritto come una figura plateale, incrocio tra un film maker perverso e un imbonitore da circo satanico, è una figura del tutto opposta (interpretata da un Marlon Brando vecchio e stanco) che l’indiano dovrà affrontare. Un uomo capace di coniugare l’orrore con la saggezza, ma anche e soprattutto un divo di Hollywood.

Se inoltre 8mm mostra accanto al regista il resto della triade oltre alla vittima, ossia il torturatore e il voyeur, in The brave egli è solo come il diavolo che destina le vittime al viaggio eterno. Produttore, regista, dunque, e attore che interpreta la propria stanchezza di attore costretto a vivere in un mondo divenuto insopportabilmente volgare. In questa figura a suo modo “estrema” è implicito un dilemma morale di fine millennio, ossia se sia lecito interrogarsi ancora sul valore della stessa vita umana.

In un’epoca, la nostra, in cui l’idea della morte si presenta in forme sempre più astratte, assai più morboso diventa il desiderio di penetrarne il mistero impenetrabile. <<Ma guarda come siamo impressionati dalla morte – dichiara cinicamente il produttore televisivo in La morte in diretta (La mort en direct, 1980) di Bertrand Tavernier – è la nuova pornografia, la nudità non attrae più nessuno e allora si mettono foglie di fico ai moribondi, si isolano nei mortori lontani da tutto…>>.

Dalle immagini della “morte di diretta”, pezzi di vita prima della morte girate dal vero per il pubblico di massa, a quelle più “private” dello snuff il passaggio è breve. Nel film di Bertrand Tavernier le immagini “rubate” dell’uomo cinecamera (interpretato da un giovane Harvey Keitel) altro non sono che una fase preparatoria alla morte vera della protagonista il cui suicidio solitario anticipa quello reale dell’attrice Romy Schneider, che come è noto si diede la morte. La sua solitudine di cinecamera vivente non è inferiore a quella della stessa vittima: <<Le sue prime riprese: gli occhi mostrano cose, luoghi che sembrano non essere mai esistiti, mai visti prima, anche lui capisce solo dopo che ha girato che non gli appartengono più, soltanto dopo conosce le cose, non capisco come fa, cosa prova senza conoscere, senza capire i mondi che si porta dentro.>>

La sua sopraggiunta cecità non è che il contrappasso all’accumulo di immagini rubate che non solo gli impediscono di guardare e di capire, ma anche di usare il sonno per produrre sogni.

Rispetto alla figura inquietante del regista di snuff, la sua è certamente ambigua e assai più complessa e al tempo stesso tragica, proprio in quanto figura che incarna il desiderio (delle immagini) attraverso il corpo (<<tutto ciò che vedo diventa un film>>) e nel contempo la colpa, derivante dal frugare nell’intimità altrui. Se la forma del suicidio è il rito in cui si celebra la liberazione delle immagini, in La morte in diretta è invece l’omicidio ad assicurare lo spettacolo della morte di diretta nell’assai più spettacolare e finanche grossolano Quinto potere (Network, 1976) di Sidney Lumet. La supremazia delle immagini pretende il sacrificio dell’attore, così esige la fiction oppure rivela la morte di un uomo in Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni.

Come l’antico pittore fiammingo Van den Cruys protagonista nel racconto dello scrittore colombiano, il giovane operatore protagonista del bellissimo L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960) di Michael Powell interviene sulla realtà modificandone il destino, trasformando il proprio personaggio in vittima. In entrambi i soggetti esiste il medesimo rapporto voyeristico con le immagini che rimanda all’archetipo filmico dello sguardo come metafora del desiderio, La finestra sul cortile (Rear window, 1954) di Alfred Hitchcock. Ma se l’ipotesi della camera-uomo di Tavernier resta pur sempre un gesto più poetico che realistico, il fotografo hitchcockiano (Stewart) o l’operatore di Michael Powell (Bhoeme) tuttavia restano pur sempre icone dell’universo voyeristico di massa.

Ma se un regista muore (Nicholas Ray) è a un altro regista (Wim Wenders) che spetta il compito di “girare” le sue ultime ore. Un atto di necrofilia dovuta ad un maestro di cinema con Nick’s movie-Lampi sull’acqua (Nick’s movie-Lightning over water, 1980) di Wim Wenders, la morte diviene avventura del tempo trascorso sul set navigante nell’Oceano. Intimamente connesso all’idea della morte, il cinema celebra l’atto finale che ne stabilisce i confini legittimi oltre i personaggi creati sostituendosi così alla morte vera dell’eroe.

Se il cinema è sedotto dall’idea di filmare la morte come verità (Wenders) o piuttosto come racconto (Lumet, Tavernier, Bigelow) con lo snuff movie si ha invece la morte come oggetto misterioso o prodotto svelato di un mercato planetario che si vuole testimone solitario e amorale di un “evento” tanto più crudele quanto eccezionale. La serialità del crimine nasce dunque dal sentimento e dal desiderio dello spettatore malato di eternità dell’atto come di sé stesso in segreto accordo con l’assassino e il suo “regista”.

Note

1. Il racconto Matias van den Cruys o l’apologia del realismo fa parte del volume di racconti intitolato Ombra e penombra, edizione italiana a cura di Maurizio Fantoni Minnella, Besa Editrice, Lecce 2000