L’AMERICA AMARA DI DENNIS HOPPER

CINECRITICA n. 13-14 (gennaio-giugno 1999)

 

L’AMERICA AMARA DI DENNIS HOPPER

C’è un uomo con una pistola al fianco che vive solitario dentro una baracca vicino a un fiume. L’uomo si nasconde poiché da giovane, quando era un easy rider, ha ucciso una donna per amore. Un altro delitto è stato compiuto: una giovane donna, uccisa sul greto di un fiume con cinica indifferenza da un ragazzo, vent’anni più tardi. La potente interpretazione di Dennis Hopper, nel ruolo che più di ogni altro gli somiglia, nel film di Tim Hunter  I ragazzi del fiume (River’s edge, 1986) è davvero paradigmatica della sua intera carriere di attore. Dal punto di vista psicobiografico il delitto commesso dal protagonista ormai anziano (dai chiari toni crepuscolari) rispecchia una evidente metafora del desiderio di “fuggire da Hollywood” ossia di “uccidere” ciò che più si è amato per amore della trasgressione alle regole del linguaggio filmico dominante in America. Nel realistico confronto tra la generazione del ’68 (quella appunto di Hopper) e quella degli anni Ottanta (rappresentata dai teen-agers, complici e amici del giovane assassino) è possibile cogliere quel sottile legame di malinconica nostalgia e di rimpianto per un mondo che non c’è più. La medesima espressione triste del suo volto sarà il simulacro di quella coscienza inquieta dell’America “amara” [1] che l’attore-regista (nato a Dodge City, Kansas nel 1936) ha saputo incarnare in molti dei suoi personaggi.

Se Easy Rider (id., 1968) [2] aveva spalancato al pubblico di tutto il mondo gli orizzonti di una sensibilità nuova e di una nuova concezione esistenziale, Fuga da Hollywood (The last movie, 1971) fu una feroce requisitoria contro il mondo di Hollywood e sulla corruzione e il vizio che ne sono parte integrante. Una stroncatura senza appello. Dietro l’indignazione generale emergeva la nuova condizione di autore isolato dello star system americano che sceglie deliberatamente di auto emarginarsi nel Nuovo Messico, concedendosi interamente alla droga e all’alcool, sperimentando così un’altra “rivoluzione”, più intima e personale. Forse è proprio in tale “vuoto” o, se si vuole, nella lunga separazione dal proprio ruolo di regista, che matura in Hopper una nuova dimensione interiore capace di caratterizzare il proprio ruolo di attore e di cineasta. Se osserviamo, infatti, le successive opere da lui dirette, e in particolare Ore contate (Backtrack, 1989) risulta evidente l’identificazione pressoché totale del regista con l’attore protagonista. L’uomo è specchio dell’altro, l’uno insegue l’altro che insegue la giovane pittrice (Jodie Foster) lungo le strade d’America. A loro volta sono inseguiti da un killer )John Turtutto) mandato da altri killer che appartengono di fatto al più ovvio immaginario cinematografico hollywoodiano. Ma ciò che più importa ad Hopper, suonatore di sassofono in questo film, è dimostrare che esiste un’anima, sia pure “nera”, una dimensione umana totalmente e “hollywoodianamente” criminale. Una diversità latente, trasferitasi in una sorta di amour fou distante e immaginario, trasforma l’io del protagonista rovesciandone il ruolo da inseguitore ad inseguito. Un killer sentimentale, non troppo dissimile dal personaggio appena citato da River’s edge.

Ma andando a ritroso nel tempo scopriamo un Dennis Hopper soldato reduce dal Vietnam scortare una bara su un treno lungo tutta l’America (Tracks – Lunghi binari della follia, 1976) del regista indipendente Henry Jaglom. L’attore ritrova in quest’opera, tanto importante quanto ancora semisconosciuta, i tratti essenziali del road-movie, ma con una sostanziale differenza: rispetto a Easy rider non esiste più alcuna ipotesi di fuga se non da se stessi, non vi possono essere, inoltre, più illusioni sul tempo e sulla bontà degli uomini. Il protagonista, forse, ne è già contaminato: lo stile allucinato, dinamico, spezzato ed emotivamente coinvolgente di Jaglom riflette sino in fondo lo spaesamento di un personaggio che porta con sé una bara vuota, cioè un nulla simbolico dietro il quale vi è tutto l’orrore di una guerra. E infatti l’attore americano incarna con sensibilità dolente il sentimento della paura verso i propri simili, che lo condurrà poi a commettere un delitto “d’amore” (un’anticipazione del sassofonista assassino!) per il bisogno perverso di una impossibile perfezione, e infine a ribellarsi alla società ipocrita, trasformandosi in un piccolo Rambo ante litteram nell’emblematica sequenza finale in cui egli, sceso nella bara dell’amico, dopo pochi attimi ne esce come da una trincea armato fino ai denti. In tal senso Tracks anticipa con piglio spietatamente lucido la tranche de vie futura di questo attore il cui ruolo andrà via chiarendosi nelle interpretazioni più significative, verso una sempre più raffinata interiorizzazione del Male. Ad accorgersi dell’attore-regista del Kansas, del mitico autore di Easy Rider, cresciuto all’ombra del grande James Dean, furono verso la fine degli anni settanta due autori diversissimi tra loro, Francis Fors Coppola e Wim  Wenders, tuttavia fatalmente e ambiguamente legati dal film Hammett, indagine a Chinatown (Hammett, 1983). Nel capolavoro di Coppola Apocalypse now (1979) il volto di Hopper offriva lo spunto per una riflessione sul ruolo dei media (l’attore è un fotografo infatuato dalle idee deliranti del capitano Kurtz) di fronte alla spettacolarità anche tragica di un evento. Per altro verso si può affermare che per il piccolo fotografo americano il “gigante” Kurtz rappresenti l’ultimo “santone” di un’era psichedelica divenuta ormai irraggiungibile. Hopper sembra viaggiare con la mente a ritroso nel tempo quando cerca di difendere Kurtz come un profeta folle, come un santo che si immola lasciandosi uccidere come un animale. Le sue tante e inutili macchine fotografiche stanno lì a testimoniare l’inadeguatezza di quello strumento di fronte al niente di un uomo. L’orrore evocato da Kurtz è lo spettro vivente di una civiltà che ha usato il napalm per sterminare essere umani e al tempo stesso ha trasmesso l’idea di violenza nell’immaginario collettivo di massa e il narcisismo della violenza come pratica e simbolo autoreferenziale di una cultura cinematografica che ha eletto la figura, ma potremmo anche dire lo stereotipo, del killer quale costante del cinema hollywoodiano. L’attore Hopper è molto spesso il killer consapevole del proprio ruolo in una società basata sul crimine, ma anche l’uomo capace, proprio come il capitano Kurtz, di portare “l’orrore” del mondo ad un certo grado di visibilità e perfino di fisicità, incarnando alla perfezione le molteplici figure di un’America che trasforma in fiction le proprie paure irrazionali.

Ma ne L’amico americano (Der Americanische freund, 1977), a parer nostro il capolavoro di Wim Wenders, Ripley è assai più di un semplice killer, ma è la personificazione dell’ambiguità e della seduzione dell’immaginario filmico americano che si “agita” dentro la vita quotidiana di un modesto corniciaio di Amburgo (Ganz). L’ambigua figura di Ripley riflette altresì la presa di coscienza di un vuoto ossia del <<non essere da nessuna parte>>. Spaesamento di due uomini, di due culture tra loro incompatibili. Tuttavia solo attraverso la “scommessa” sulla vita del corniciaio Jonathan  che Ripley potrà “contaminarlo”, trasformandolo in un killer, ossia nell’immagine speculare di Ripley, in una definizione “europea” del mito americano o se si vuole di un travestimento in cui su di un piano simbolico, Jonathan-Ripley da personaggio reale diventa soggetto-oggetto di pura fiction.

Dell’attore si accorse anche il catalano Juan José Bigas Luna durante il suo soggiorno americano [3] infatti lo volle come attore protagonista di Reborn (id., 1981), opera misconosciuta presentata al Festival di San Sebastian e poi sparita dalle programmazioni internazionali. Hopper aveva forse trovato il suo alter ego nella figura del protagonista e certamente aveva ritrovato il filo perduto del proprio talento visivo e narrativo dopo nove anni di assenza girando Out of the blue (id., 1980) che resta ancora oggi il suo film più lucido. Scritto e girato con stile asciutto w incisivo sino alla sgradevolezza, il film trova il suo punto di forza nell’unità drammatico-stilistica, peraltro riconducibile al doppio ruolo di Hopper, padre violento e incestuoso di una giovane drogata che gli si rivolta contro come ad un “cattivo maestro”, l’uomo che ha sulla propria coscienza molti delitti contro la morale borghese. Vi sono continui rimandi tra i suoi personaggi più emblematici, uno dentro l’altro scatole cinesi, e tutti a loro volta sono originati da un unico e solo interrogativo su cosa sia veramente l’America e dove si sia infime smarrito il giovane yippie dal volto malinconico e scavato!

Si potrebbe rispondere che egli, per tutto un ventennio, abbia dato quel volto invecchiato a tanti inutili personaggi,l spesso comprimari, alternando parti di scarso rilievo in scialbi kolossal come Waterworld (id., 1991) di Kevin Reynolds, o in pseudo road movie come Una vita al massimo (1999) di Tony Scott, dove non vi è più alcuna traccia di un personaggio autentico, a regie fiacche come Colori di guerra (Colours, 1988) che nulla aggiunge alla serie di coppie di poliziotti metropolitani (Duvall-Penn), o al più recente Una bionda sotto scorta (Chasers, 1994) che è un fiacco tentativo di riproporre la struttura del road-movie ferroviario (nel film un marinaio deve scortare una giovane detenuta per omicidio attraverso l’America). Ma il confronto con il passato è impensabile. Benchè l’archetipo del road-movie sia rimasto identico a se stesso, è lo spirito che lo anima a vanificare il ricorso ad un tipo di struttura narrativa impostata sull’iterazione. Il regista, sebbene si riservi la particina di un commesso viaggiatore amante della pornografia, non rinuncia tuttavia ad ironizzare sul clima di puritanesimo isterico, malattia infantile di cui soffre da sempre la società americana. Ma appena egli discende nel “cuore nero” dell’America, distillando incroci di melò e di noir, allora si hanno i momenti migliori di The Hot Spot (idem, 1990) e le superbe interpretazioni di Blue Velvet (Velluto blu, 1986) di David Lynch e di Il cuore nero di Paris Trout (Paris Trout, 1991) di Stephen Gyllenhaal. Qui l’attore esplora le radici del male, sostenuto dal talento visionario di un David Lynch, conferendo accenti sordidi ad un personaggio la cui crudeltà programmatica è proporzionale al grado di isteria sessuofobica e di paure del diverso su cui è plasmato il fragile microcosmo famigliare americano. Con metafisica determinazione Lynch contrappone la luce alle tenebre, la positività del giovane ricercatore del crimine (MacLachlan) alla crudeltà del vecchio psicopatico erotomane (Hopper). Il suo personaggio dipinge “l’orco” che è in ognuno di noi come la proiezione dell’inconfessata paura dell’eros e del diverso che affligge il mondo americano come una vera e propria patologia collettiva.

In ogni regia di Hopper, infine, esiste sempre l’Hopper attore. Ma questa complicità (dell’occhio che guarda e del corpo che agisce) che dura dai tempi di Easy Rider, trova il suo punto zenitale in The Black Out (1997) di Abel Ferrara, dove finalmente il ruolo di attore-regista nella realtà si trasferisce prepotentemente all’interno della stessa fiction: il regista di Easy Rider recita la parte di un regista, cioè se stesso, concentrandovi tutta l’ambiguità e il cinismo che è proprio del suo cinema e dei suoi stessi personaggi.

Ma ancor più nei panni del commerciante Paris Trout, Hopper precipita sino in fondo con impassibile, impietosa lucidità nella propria anima, dentro la parabola di un folle assassino di neri e matricida che tutta la città protegge, la cui auto liberazione dal male non può che giungere solamente da se stesso.

E se infine il suicidio di Paris Trout fosse in fondo quello dello stesso Hopper, colpevole, per alcuni, di oltraggi ripetuti al pudore, per altri invece di aver indiscriminatamente servito Hollywood?

Dove sta dunque il confine tra l’artista e l’uomo? Questo forse è il segreto che l’attore-cineasta Dennis Hopper ha voluto riservare al pubblico.

 


[1] Il termine si riferisce all’omonimo taccuino di viaggio di Emilio Cecchi scritto nel 1919 e interamente dedicato all’America

[2] Rivisto oggi il film appare assai meno innovativo di quando fu realizzato. Al di là delle pur apprezzabili suggestioni visive, legate alla dimensione culturale del tempo, esso ricalca nella struttura narrativa la tipica dinamica del primo road-movie americano, ossia del western.

[3] Della sua permanenza negli Stati Uniti si ricordano ben tre opere: la già citata Reborn (1981), Lola (1985) e Angoscia-Anguish (1987).

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