TERZOMONDISMO E CINEMA DELL’IMMIGRAZIONE

CINECRITICA n. 32 (ottobre-dicembre 2003)

L’ALTRA PARTE DEL CIELO: TERZOMONDISMO E CINEMA DELL’IMMIGRAZIONE

1.

Per quasi un intero decennio (1963-1973) le teorie terzomondiste rappresentarono in Europa una speranza per quanti allora credevano che la rivoluzione potesse meglio realizzarsi in paesi in via di decolonizzazione come l’Algeria e il Congo o in America Latina dove agivano movimenti di lotta anti-imperialisti, come ad esempio l’esercito di liberazione nazionale colombiano e Sendero Luminoso in Perù, e dove vi era soprattutto una rivoluzione in atto, comunque stati dove la presenza di un’economia di sottosviluppo e di un’oligarchia capitalista lasciava ampi spazi alla rivolta e alle rivendicazioni sociali.

Molti fattori politico sociali e teorico intellettuali contribuirono al formarsi di una coscienza rivoluzionaria in senso terzomondista da parte di artisti, intellettuali e cineasti italiani ed europei: innanzitutto il trionfo della Rivoluzione a Cuba (dopo la fallita invasioni Usa della Baia dei Porci) che rivelò la triade dei “barbudos” costituita da Fidel Castro, Ernesto Che Guevara, e Camilo Cinfuegos. La morte improvvisa del Che in Bolivia nel 1969 contribuì ad alimentarne il mito fino ai tempi nostri, tanto che la sua figura stampata sulle magliette dei giovani di mezzo mondo finì per oscurare l’altra grande figura di rivoluzionario, quella del sacerdote colombiano Camilo Torres Restrepo[1] che al pari del Che finì tragicamente per mano dell’esercito governativo colombiano. La lettura de I dannati della terra di Frantz Fanon (1961) che del terzomondismo fu un testo chiave, primo resoconto della schiavitù e dello sfruttamento dell’uomo in età moderna, e al tempo stesso la Cina di Mao e della rivoluzione culturale, il Vietnam di Ho Chi Min, contribuirono a formare una coscienza critica e politica in numerosi intellettuali ed artisti, non ultimi i cineasti, che ebbe riflessi considerevoli nello sviluppo delle politiche extraparlamentari. Su questo terreno, per taluni versi ambiguo, ossia segnato da profonde debolezze e contraddizioni[2], lo sforzo compiuto dal cinema per sintonizzarsi sulle scelte delle avanguardie politiche che stavano cambiando la Storia, dovette scontrarsi con l’assenza di un vero e proprio dibattito teorico estetico, che stabilisse delle linee guida su cui fondare un percorso comune e con la decisiva inadeguatezza di talune scelte stilistiche equidistanti sia dal cosiddetto cinema “militante”, sia da quello che per comodità teorica fu definito cinema “poetico-politico” [3], pertanto inclini ad una sorta di compromesso tra le istanze del pensiero e della

lotta antimperialista ed un cinema “popolare”, in un senso che si voleva “gramsciano” o anche “brechtiano”, che può ben essere rappresentato da un’opera come Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo, la cui esemplarità è forse equiparabile alla sua stessa debolezza.

Nella sceneggiatura di Franco Solinas e di Giorgio Arlorio l’isola immaginario di Queimada (“isola bruciata”, che a ragione potrebbe figurare in un moderno isolario) diventa una sorta di microcosmo concentrazionario, paradigma di tutte le rivoluzioni del terzo mondo. Ora, se ci addentriamo nella complessa vicenda narrata nel film di Pontecorvo, scopriamo una pericolosa tendenza a concentrare in un solo luogo tanto più simbolico quanto maledettamente reale, le linee guide, per così dire, della tormentata storia politica dell’America Latina, mescolando ciò che avrebbe dovuto essere il linguaggio dell’apologo (con forti elementi di stilizzazione) con i codici del film d’avventura in costume (lo stesso Pontecorvo ebbe a definire il suo film come “film d’avventura”). La messinscena necessita di due personaggi in antitesi, l’avventuriero anglosassone e lo schiavo antillese, l’uno interpretato da un divo dalla natura scontrosa, Marlon Brando, che sembra piuttosto giungere da una storia avventurosa di ammutinamento, l’altro, attore sconosciuto, sostenuto da un doppiaggio risibile che mescola, in un impasto maccheronico, brandelli di italiano, spagnolo e portoghese, è la perfetta incarnazione della figura dello schiavo descritta da Frantz Fanon. C’è un fotogramma che ritrae il suo volto e lo eleva perentoriamente a simbolo di ribellione ad ogni forma di schiavitù antica e moderna. William Walker e José Dolores, dunque, amici e antagonisti in una storia che è soprattutto sintesi di tutte le storie che hanno come oggetto lo sfruttamento delle risorse umane e materiali dei paesi del cosiddetto “subdesarollo”.

L’uno fornisce all’altro gli strumenti per ribellarsi allo sfruttamento portoghese (dato curioso dal momento che nelle Antille non ci sono mai state dominazioni della corona portoghese), ma gli si schiera contro quanto questi, da schiavo divenuto libero, organizza una guerriglia contro gli inglesi che fanno dell’isola un loro protettorato, ma alla fine viene sconfitto. Andrà con orgoglio al patibolo, dopo aver rifiutato l’aiuto dell’avventuriero, il quale, incongruamente pentitosi del suo operato (e qui risiede una delle più significative contraddizioni nel trattamento del personaggio) vorrebbe offrirgli una possibilità di fuga, ma José Dolores con il suo sacrificio otterrà la sconfitta morale dell’altro. Più tardi è lo stesso Walker a venire ucciso da un facchino di colore deciso a vendicare Dolores. Per un attimo Walker crede di vedere proprio lui nello sguardo fintamente servile dello sconosciuto, ma è un’illusione. E’ il giusto finale che riconduce la storia ad una circolarità inesorabile. Finale “morale”, che peraltro ha una forte analogia con il film di Damiano Damiani Quien sabe? (1966), scritto dallo stesso Solinas e che presenta un personaggio analogo nella figura dell’americano giunto in Messico per sfruttare la rivoluzione a suo proprio vantaggio, nel quale è possibile cogliere l’idea di una giustizia rivoluzionaria pronta a creare focolai di rivolta. Nella costruzione dell’epilogo politico, regista e sceneggiatore cadono nell’equivoco sull’equazione di cinema popolare=cinema rivoluzionario, nell’elaborazione di una sovrastruttura narrativa di una fabula non compatibile con la verità della storia, ma semplicemente strumentale ad una possibile lettura semplificata della Storia stessa.

Una lettura comunque progressiva in senso marxista, carica di allusioni alla Cuba pre-rivoluzionaria e a quella della guerriglia castrista, ai moderni movimenti anticolonialisti, ai golpe latinoamericani come strumento di potere dei tanti caudillos che hanno infangato l’intero continente americano. Tuttavia l’apologo didattico non riesce mai ad essere veramente brechtiano, per quel suo personaggio dal fascino ambiguo quanto contraddittoria è la sua funzione nella storia; ossia quella di personaggio in carne ed ossa che agisce e reagisce e di improbabile coscienza critica sui destini degli uomini e delle nazioni di cui la minuscola Queimada è il microcosmo simbolico ed esotico da cui si dipana la spiegazione ed insieme il racconto (e qui risiede la maggiore ambiguità del film) del neocolonialismo e del capitale come sacro valore e dunque origine di ogni schiavitù.

La disputa sul significato di cinema militante, ricca sul piano teorico e basata sulla necessità morale, ancor prima che politica, di rifiutare le dinamiche della fiction, intese come sovrastruttura borghese della verità dei fatti, non si rivelò invece fruttuosa in quanto a risultati artistici, sebbene vadano pur fatte alcune differenze.

Vi sono infatti esiti espressivi, per così dire, intermedi, ossia che si situano fra il rifiuto totale della fiction, come nel documentario di Ugo Gregoretti Vietnam, scene dal dopoguerra (1975) e quello di Roberto Pistarino, Che (1993), e l’adesione ai modelli del cinema d’avventura e a quello didattico, di cui Queimada resta comunque l’esempio più significativo. Un cinema, come quello di La battaglia di Algeri (1966) dello stesso Pontecorvo, che segue, in una sorta di “pedinamento zavattiniano”, la rivolta algerina per l’indipendenza nelle strade e nelle piazze di Algeri e della sua immensa Kasbah.

Molto è stato scritto su questa opera tanto celebrata, e una lettura “a distanza” non può che stabilire alcune costanti del “fare cinema politico” che qui trovano un equilibrio perfetto, ossia l’azione serrata e la narrazione corale, dramma di un popolo oppresso da centoquarant’anni, costruite secondo i canoni del realismo critico (e con un non trascurabile riferimento al film di Julien Duvivier, Il bandito della Casbah), e la precisione dell’assunto politico. Un realismo basato sull’ aderenza ai fatti, di dinamiche visive che rivelano una matrice documentaristica, che pur tuttavia comprende alcuni “personaggi”, in particolare il giovane analfabeta e rivoluzionario Alì e il colonnello dei parà Mathieu, come costanti della narrazione. Pontecorvo riesce comunque a saldare l’esigenza del racconto alla verità della Storia avendo come unità spaziale l’ambiente della kasbah, labirintica e solidale, quartier generale ed insieme rifugio del Fronte Nazionale di Liberazione (FNL) che richiama alla memoria le gesta romantiche del bandito Pepé le Mokó. Ma nella kasbah “rivoluzionaria” (quasi un ossimoro) non vi è certamente posto per forme di eroismo individuale, ma per una resistenza corale, un intero popolo che si identifica con la stessa città, città araba, architettura secolare, spazio fisico e mentale della rivolta in un’opera che è soprattutto un je accuse contro qualsiasi forma di colonialismo antico e moderno, ma anche prova, più che testimonianza, di come il cinema possa essere strumento di conoscenza e allo stesso tempo di rappresentazione. E lo fa senza demagogia, nel rispetto umano di entrambe le parti antagoniste, fornendo infine una lettura assai interessante della violenza di cui coglie perfettamente l’ambiguità, ossia l’essere essenzialmente terrore e morte rispetto alla propria funzione di detonatore rivoluzionario. Le cronache dell’epoca ci rammentano di quanto il film, prodotto da Italia e Algeria, fu attaccato da destra, ma anche da una sinistra faziosa che accusò Pontecorvo e il suo sceneggiatore di eccessiva indulgenza nei confronti della figura di Mathieu proprio per quell’assenza di demagogia con cui non si fa né vera lotta politica, né vero cinema.

In altre opere come Congo vivo (1962) di Giuseppe Bennati, Sierra maestra (1969) di Ansano Giannarelli e I dannati della terra (1969) di Valentino Orsini, l’adesione alle tesi marxiste e rivoluzionarie, trova una sorta di mediazione espressiva nel “racconto”, diremo esistenziale, del singolo giornalista o cineasta, che la volontà e il caso pongono di fronte all’interrogativo se accettare o meno l’idea di Rivoluzione, quasi che il cinema si trasformi, in un preciso momento storico, il luogo dello psicodramma politico dell’intellettuale il quale, nell’idea stessa di rivoluzione terzomondista, verrebbe a trovare la giusta compensazione alle proprie frustrazioni politiche e umane.

Nel film di Bennati, l’evidente richiamo al cinema del primo Antonioni, col giornalista progressista che nel fare ritorno in Africa (ex Congo belga), ritrova la vecchia amante, e si misura con il proprio coinvolgimento sentimentale nello spirito del movimento di liberazione attraverso alcune testimonianze rese dal vero, resi ancor più visibili nella loro bruciante attualità da un serrato montaggio di materiali di repertorio. E il limite che il film mostra, consiste proprio nella costruzione di uno “sfondo” fittizio da “cinema verité”, sia pur di indubbia efficacia, all’espressione della soggettività del protagonista, frutto cioè di un evidente compromesso tra estetica borghese e presunte istanze rivoluzionarie.

In Sierra maestra (il titolo non può non trarre in inganno per l’allusione alla rivoluzione cubana) l’adesione di un intellettuale italiano alla guerriglia venezuelana (la cui storia in Italia è pressoché sconosciuta) lo priverà della libertà. Interrogato dai militari resterà fedele ai suoi ideali. Il film di Ansano Giannarelli, documentarista, oggi direttore dell’Archivio Storico del Movimento Operaio, riafferma la necessità di una dialettica tra cultura e politica, tra teoria e prassi rivoluzionaria, smascheramento di una realtà assai diversa.

Ne I dannati della terra il ruolo dell’intellettuale terzomondista è affidato ad un regista che si reca in un paese africano per sostituire un suo ex allievo cineasta africano morto di leucemia durante le riprese del suo primo film, rimasto incompiuto. Ma il suo “testamento”, chiave di volta per la comprensione poetica e sociale di un continente, costituito da immagini slegate, oscure, violente, tuttavia risulta incomprensibile al protagonista. Non vi può comunque essere cinema rivoluzionario laddove vi è la figura di un “protagonista”, si potrà obiettare, ma è altresì vero che il fine di queste opere, è piuttosto una riflessione sull’idea di rivoluzione in aree geografiche che andavano sperimentando proprio in quegli anni, con la lotta di liberazione, l’emancipazione dei vecchi regimi coloniali. E’ innegabile che questo “guardare” con curiosità e interesse verso altre latitudini geografiche, “produttrici” di nuovi modelli di lotta rivoluzionaria, non solo ne riveli i limiti di analisi politica, ma mostri perfino una certa tendenza all’esotismo della cultura italiana, neo avamposto di una tradizione, o se si vuole, di una moda che ha conosciuto nello scorcio del XIX secolo, il momento culminante e il proprio esaurimento.

E’ altresì interessante osservare come solo dopo “il ritorno a casa”, nel film di Orsini, avviene la presa di coscienza del regista che finisce con l’abbracciare le tesi guevariste sulla esportazione della guerriglia in molti paesi come radicalizzazione dello scontro di classe, a sostegno della tesi secondo cui non vi è migliore comprensione di una determinata realtà socio-politica se non attraverso la “distanza” che si pone tra il soggetto e il “problema”.

Nel film di Valerio Zurlini, Seduto alla sua destra (1968), scritto dal regista con Franco Brusati, (che in origine doveva far parte di un film a episodi dal titolo “Vangelo 70”, prodotto da Carlo Lizzani), la lettura della vicenda di Patric Lumumba e della liberazione del Congo, non conosce alcuna mediazione se non il fatto di essere scritto da un regista italiano, svolgendosi, appunto, dentro la cosiddetta “cultura degli oppressi”.

Ed è in tale prospettiva che peraltro va letta un’opera come Tropici (1969) di Gianni Amico, documentarista genovese, prematuramente scomparso, che da un suo viaggio nel Brasile “povero” trae lo spunto per lo scabro ritratto di una famiglia di salariati agricoli composta da padre, madre e due figli, in viaggio attraverso il Brasile, dal desolato Nordeste a Pernambuco, fino alla metropoli di San Paolo in cerca di lavoro, senza mediazioni intellettualistiche, ma con lo sguardo antropologico di colui che fissa sulla pellicola la tragedia del “subdesarollo”, scegliendo una struttura tipica come quella del viaggio, che gli permette di legare il destino individuale a quello di un intero paese. Nel film è facile cogliere gli echi del “cinema novo” brasiliano, riflesso di una assimilazione cosciente delle avanguardie cinematografiche che andavano sviluppandosi nel corso degli anni ’60[4] e del neorealismo rosselliniano.

E’ significativo il fatto che Amico, rinunciando al facile schema del “confronto culturale” di due opposti, ossia costruendo una vicenda interamente latinoamericana, sia dunque portatore di uno sguardo sulla realtà più oggettivo, privo cioè di quell’ambiguità intellettuale che caratterizzava le opere di altri registi.

Amico di Glauber Rocha (che fu in esilio in Italia e in altre parti del mondo), Gianni Amico collabora alla sceneggiatura di Il leone a sette teste (1969), sorta di apologo didattico anticolonialista antimperialista, girato a Brazzaville, in Congo, utilizzando materiali eterogenei (tra cui marionette e tipi umani fissi etc.) a difesa di un cinema-manifesto che attraverso un montaggio dialettico e alla violenza iconica delle immagini, ponga lo spettatore di fronte alle contraddizioni della società capitalista e alle forme “attive” per superarla a riprova non solo del furore iconoclasta tipico del regista brasiliano, ma anche di quel pensiero e sentimento terzomondista che agitò le coscienze con semplicità e risultati diversi verso un tipo di alternativa politico sociale e culturale che presto si rivelò impraticabile in Europa. Il film confermò l’impegno del regista genovese per le tematiche e la passione sul terzo mondo non necessariamente localizzate nell’America Latina.

In una posizione a suo modo isolata, Marco Ferreri dichiarava di voler fare nichilisticamente tabula rasa di ciò che resta di un terzomondismo contemporaneo ridotto a pura merce, che qui si manifesta sotto le spoglie benevoli della solidarietà internazionale, nelle feroce satira di Come sono buoni i bianchi (1988); il lungo viaggio attraverso il Sahel del convoglio di viveri (pasta e pomodori per gli abitanti del deserto!), si trasforma in macabro carnevale che non risparmia nemmeno le tribù africane, presentate come veri spauracchi nel pur breve itinerario della bontà che si conclude invece con un rito cannibalico. Ciò che viene comunemente chiamato mito terzomondista, si perpetua attraverso nuove forme di lotta rivoluzionaria, identificandosi di volta in volta in leader politici carismatici o “eroici” che in un certo senso ne racchiudono la sintesi. E’ accaduto con il Sandinismo, andato al potere nel 1979, dopo anni di durissima lotta contro il dittatore Somoza e il suo esercito, che per circa un decennio governò il “Nicaragua libre”, prima che il potere passasse nuovamente nelle mani dei conservatori, ma questa volta entro una prospettiva democratica liberale, comunque legittimata e protetta dal governo degli Stati Uniti, al quale il cinema, si badi bene, non italiano, dedica ben tre opere, di cui due nordamericane[5]. Ma alla fine delle utopie, cui fanno riscontro, da una parte i grandi flussi migratori da sud a nord del mondo, come da est a ovest d’Europa, e dall’altra, il risvegliarsi dei fondamentalismi islamici, contrapposto al tentativo di monopolio planetario degli Stati Uniti, si vorrebbe dare una risposta concreta con la riproposizione di una dialettica politica capace di coniugare il pensiero pacifista con la critica radicale alla globalizzazione liberista, sfruttatrice dei paesi del sud del mondo. Mentre oggi la figura ormai quasi leggendaria del Subcomandante Marcos, leader del Movimento Zapatista per la liberazione del Chapas, occupa un posto non trascurabile nell’immaginario giovanile anche grazie al proprio sostegno al Movimento New-Global internazionale, quella più pragmatica del neo presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva, speranza per una progressiva trasformazione della società brasiliana in una prospettiva più socialdemocratica che marxista, resta appannaggio esclusivo degli intellettuali e delle classi sociali più povere brasiliani. Ma è proprio questa figura, in apparenza modesta, ad incarnare prepotentemente la fine del sottosviluppo, dello sfruttamento delle masse contadine e operaie delle grandi imprese, e in altre parole la riaffermazione della dignità umana. Resta infine il nodo più emblematico del pensiero terzomondista, quello della figura di Ernesto Che Guevara, il cui mito, il solo ad essere rimasto in piedi dopo la fine del sogno dell’internazionalismo comunista, continua a mietere seguaci in tutto il mondo. Tuttavia l’immagine romantica del rivoluzionario integrale, simbolo di coerenza etica e di fede assoluta alla causa della rivoluzione si infrange, sia nell’ormai storica accusa di avventurismo, da parte di larghi settori della sinistra ufficiale, sia nell’accusa, questa di matrice cattolico reazionaria, che sostiene l’assoluta incompatibilità fra dichiarato pacifismo e violenza rivoluzionaria.

Il cinema italiano, se si eccettua El Che Guevara (1969) di Paolo Huesch, girato ad un anno dalla morte del Che, esempio mediocre di biografismo agiografico e l’incursione nel “macabro politico” come esercizio scandalistico di crudeltà e di cinismo, di Faccia di spia (1975) di Giuseppe Ferrara, dove l’ultima impresa del Che (interpretato da Claudio Volontè) viene narrata come una banale avventura separata dal proprio contesto politico, all’interno di una caleidoscopica rassegna dei crimini della Cia nel Terzo Mondo, resta pur sempre il bel documentario di Roberto Pistarino (con Ann Wolbrath), Che (1993), realizzato interamente con materiali di repertorio, con lo scopo di conservare la memoria storica nelle nuove generazioni. Di segno diverso è invece il film del francese Richard Dindo, Ernesto Che Guevara il diario di Bolivia (1984),che compie un vero e proprio viaggio a ritroso nei luoghi che furono del Che, sostituendo alla cronaca e alla Storia le parole capaci di evocarne la dimensione epica e tragica.

A riprova del rinnovato interesse per questa figura in un certo senso esemplare, negli ultimi dieci anni si moltiplicano le biografie di autori stranieri, in primo luogo quella dello scrittore messicano Ignacio Taibo II, “Senza perdere la tenerezza”,[6] le quali, pur con modalità differenti, indagano con urgenza di completezza, tutti gli aspetti della personalità del Che, da quelli più spiccatamente personali (gioventù in Argentina, passione per la medicina, viaggi, etc.) a quelli più specificatamente politici (dalle funzioni ufficiali nella Cuba di Castro al ruolo di rivoluzionario internazionalista permanente),e infine all’ultima “avventura boliviana” e alla morte, sulla quale forse non sono bastate tutte le parole scritte.

Resta invece, agghiacciante, l’immagine (che da sola contribuì ad alimentare il mito) di un uomo, brutalmente privato della vita, giunto alla fine della sua parabola umana.

2.

Se la visione “terzomondista” del mondo occidentale poggiava sul dibattito ideologico di stampo marxista, limitandosi ad una serie di enunciati che la storia dei decenni successivi ha purtroppo smentito e, come si è visto, a poche opere nate nel clima euforico e arroventato del sessantotto con l’eccezione appunto di La battaglia di Algeri, quella contemporanea dell’immigrazione, al contrario, impone un approccio di natura affatto pragmatica. Anzi, impone una dialettica conoscitiva basata sul binomio incontro-scontro, quasi che l’oggetto della propria osservazione diventi elemento attivo nel paesaggio urbano e nella complessità del tessuto sociale. In altre parole la recente figura dell’immigrato proveniente dai paesi dell’ex socialismo reale, dall’Africa e dall’America Latina, non solo rappresenta il risultato di uno scacco politico (il fallimento delle politiche rivoluzionarie in quei paesi), ma al tempo stesso lo spostamento, e ancor meglio, la migrazione del sottoproletariato del terzo mondo, disilluso dalle speranze risposte nella rivoluzione, verso quei paesi che da lontano quella rivoluzione la sognarono. Per una sorta di paradosso umano e politico, ciò che seguitiamo a chiamare ambiguamente “terzo mondo” fa la sua irruzione in un’Europa afflitta dalle contraddizioni e da un’economia instabile, cui fa riscontro una profonda crisi dell’ideologia e della cultura.

Inoltre una curiosa simmetria cronologica situa le due cinematografie italiane (quella, lo ripetiamo, del terzomondismo e dell’immigrazione) al centro della realtà sociale a riprova che esiste una sorta di specularità nella rappresentazione filmica di due fasi della storia contemporanea, poli opposti di un processo involutivo, in una prospettiva di società globalizzata, segnata dal tentativo di supremazia planetaria da parte degli Stati Uniti e delle sue multinazionali. Vi è poi un’altra simmetria che riguarda la prima e l’ultima delle opere qui analizzate, rispettivamente Pummarò (1990) di Michele Placido e Giamaica (1999) di Luigi Faccini. In entrambe vi è un personaggio di colore che non si vede mai, l’uno perché è scomparso e forse è morto, l’altro invece è bruciato vivo dai naziskin, la cui assenza sulla scena è la vera protagonista; senza l’incipit dato da queste due figure fantasma non sussiste storia, quasi che il cinema esista incuneandosi tra due morti in una sorta di itinerario circolare popolato di luoghi e di oggetti anonimi che vanno sempre più caratterizzando la dimensione urbana e metropolitana contemporanea. Nel film di Faccini il dolore per la morte dell’amico di colore spinge i suoi quattro amici in cerca della verità ad un vagabondaggio notturno dentro la città fatto di gesti minimi, senza proclami retorici, in un clima di forte improvvisazione; gli uomini sono ugualmente vivi e vitali nonostante inseguano il filo invisibile che lega tra loro la vita e la morte. L’immigrato straniero dunque si mette letteralmente in gioco innanzitutto col suo stesso corpo e con la propria anima. Tuttavia ci troviamo di fronte ad una evidente asimmetria: mentre Giamaica riflette una visione del cinema come linguaggio flessibile, dialettico rispetto alla natura del soggetto, Pummarò, al contrario, si serve delle convenzioni narrative e uno stile modellato sul linguaggio televisivo. Nel film di Placido vi è un personaggio di colore, il ghanaese Kwaku, che nell’andare alla ricerca del fratello scomparso in Italia quasi ne sostituisce la figura in un certo senso mitica, e sembra rivivere la sua stessa vita, ma con minor esuberanza e ribellione, tuttavia sperimentando su di sé il razzismo quotidiano che viene praticato nel nostro paese.

Esiste inoltre una precisa consonanza tra la dimensione urbana e la rappresentazione filmica di un fenomeno sociale. La città, in tal senso, diviene non solo il “contenitore dell’esperienza”, ma anche il detonatore della coscienza dell’immigrato. Luogo della speranza, ossia del riscatto sociale e insieme della disperazione e della perdita, la città (sia essa di provincia o metropolitana), è luogo mentale di congiunzione tra il mondo “primario” dell’immigrato e la cultura del paese che lo ospita. Pensiamo alla Rimini livida, invernale, di Vesna va veloce, (1996) di Carlo Mazzacurati, alla Milano anonima di Un’anima divisa in due (1993) di Silvio Soldini, alla Roma notturna e sfuggente di Un’altra vita (1992) di Carlo Mazzacurati, oppure a quella “luminosa” del Tevere di La ballata del lavavetri (1998) di Peter Del Monte; in tutti i casi la città risponde con un proprio “segno” non importa se in positivo o in negativo, alla presenza di una nuova cultura portata dall’immigrato. Differenze mentali, linguistiche e religiose separano non solo gli immigrati dagli ospitanti, i cosiddetti indigeni, ma gli uni dagli altri, maghrebini da polacchi o russi, equadoriani, etc. Anche per questa ragione fondamentale le città, in specie le metropoli, vengono svolgendo una funzione di collante sociale, pur tuttavia compartimentandosi in zone, in quartieri o in ghetti abitati o frequentati da singole etnie.

Il fenomeno dell’immigrazione si pone innanzitutto come “problema” e dunque le sue possibili soluzioni vengono formulate attraverso la burocrazia delle leggi o nella dimensione più libera del volontariato. Questo non significa che intorno ad esso non vi sia un dibattito ideologico su come porsi di fronte al problema tra coloro che oppongono il rifiuto dei flussi migratori, specialmente se associati alla cultura e alla fede islamica, e quanti invece riaffermano un ruolo attivo, e dunque positivo, delle masse extracomunitarie nella società italiana. Ma la vera discriminante resta pur sempre l’idea di un razzismo talora impalpabile, più spesso organizzato in una duplice prospettiva di leggi parlamentari oppure di violenza di piazza. Si tratta comunque di parametri inferiori rispetto ai paesi del nord Europa come la Francia, che vantano una più solida tradizione extracomunitaria di almeno due generazioni. Da questi elementi oggettivi è facile intuire come il cinema italiano abbia costruito talune ipotesi filmiche attraverso l’utilizzo di un sentimento comune più che di una reale presa di coscienza ideologica.

Un cinema che, come si vedrà, non nega affatto l’esistenza del razzismo come fenomeno endemico, anche se spesso viene piuttosto confinato in una pretesa minoranza sociale e politica, tuttavia limitando le situazioni conflittuali (codici burocratici, atti di violenza razzista, difficoltà d’integrazione), a casi singoli o isolati che a loro volta costituiscono altrettanti archetipi narrativi. Un cinema, dunque, che affronta una tematica così complessa e spesso sfuggente con uno sguardo attento più alla dimensione umana che a quella implicitamente politica, logica conseguenza di una visione sostanzialmente pragmatica del problema. Ma le potenzialità affabulatorie che i racconti di quotidiana solitudine e di disagio sociale suggeriscono ai registi italiani spingono verso scelte narrative di chiara matrice psicologica a riprova del rovesciamento dialettico che alla dottrina politica del terzomondismo, che identificava l’utopia nella spinta rivoluzionaria, sostituisce il flusso migratorio contemporaneo, risultante di uno fallimento politico economico il cui riscatto possibile è la totale integrazione nell’Europa neocapitalista.

Emblematica in tal senso è la sequenza finale di Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, in cui si assiste alla “fuga” della protagonista femminile, una giovane cecoslovacca (vesna è il nome della dea della primavera nella mitologia boema), decisa ad ogni costo a restare in Italia. Il suo rifiuto di tornare indietro al paese d’origine è un imperativo categorico dell’immigrato. Lo sguardo filmico che segue in campo medio e successivamente in campo lungo la fuga della ragazza sospende ogni giudizio, quasi in un rapporto fenomenologico con il personaggio che abbiamo visto passare attraverso una serie di episodi o “stazioni” della sopravvivenza e della speranza, il cui momento centrale è l’incontro con un uomo modesto e mite che si prenderà cura di lei, non ricambiato. E’ un ritratto femminile acuto e sfaccettato da cui emerge il dualismo orgoglio-integrazione, entrambe forme di desiderio che formano il substrato psico-antropologico dell’extracomunitario e che peraltro ritroviamo in altri due ritratti femminili: quello della giovane rom di Un’anima divisa in due di Silvio Soldini, che dall’affermazione del nomadismo, ossia della propria radice e della difesa della propria diversità, passa alla fase successiva dell’integrazione e del rifiuto della vita precedente, e quello della ragazza russa di Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, infelice e vagabonda, destinata tuttavia a sconvolgere la vita di due uomini diversissimi tra loro, un dentista e un balordo, cui toccherà un destino tragico proprio per mano della donna. Occorre sottolineare che ciascuna di queste opere utilizza il consueto schema narrativo basato sull’incontro tra due personaggi appartenenti a culture diverse, l’italiano e l’immigrato, quasi sempre di sesso opposto, così da legittimare una possibile storia d’amore che è anche interazione tra due culture estranee l’una all’altra.

Nel film dell’esordiente Armando Manni, Elvjs e Merilijn (1998), racconto di una coppia di rumeni che sogna l’America di Marylin Monroe e di Elvis Presley che mette in scena con successo uno spettacolo e in seguito parte per l’Italia allo scopo di stabilirvisi, il mito si frappone tra due condizioni opposte e reali: la Romania e l’Italia, mentre lo spettacolo rappresentato in un paese ancora sconosciuto non è che un “prodotto” che funziona in rapporto al grado di influenza che la forza del mito ha su di un paese. Vi è dunque anche una distanza culturale tra il luogo delle radici e quello dell’illusione. Qui infatti, come in altre opere, l’illusione di libertà supera qualsiasi ragione critica.

Inoltre vi è la tendenza a privilegiare personaggi appartenenti ai paesi europei dell’est post-comunista rispetto alle culture extraeuropee del Maghreb, dell’Africa nera e dell’America Latina, con l’eccezione del già citato film di Michele Placido, L’articolo 2 (1993) di Maurizio Zaccaro, che esplora il grado di sofferenza per la separazione dalle proprie abitudini e al tempo stesso di adattamento al lavoro pesante svolto sottoterra di un immigrato algerino e in parte il documentario di Matteo Garrone Terra di mezzo (1996), sua opera prima, sorta di trittico dell’immigrazione, girato con uno stile semidocumentaristico: la cinecamera segue i personaggi (ma sarebbe più corretto dire le persone) nell’esperienza quotidiana della sopravvivenza. Estrema periferia romana come luogo di reminiscenze pasoliniane: nella sequenza degli episodi è implicita una sorta di “avvicinamento alla civiltà”. Dalla dimensione per così dire “straniata” delle giovani prostitute nigeriane del primo episodio (che è anche il più poetico), ossia lontanissima dalla metropoli (Roma), si giunge alla figura del benzinaio egiziano, lavoratore notturno, esempio di avvenuta integrazione, attraverso un secondo episodio dedicato agli immigrati albanesi clandestini, tra i più soggetti al locale sfruttamento, usati infatti come mano d’opera abusiva, i quali imparano ogni giorno a conoscere i simboli del benessere sociale da cui si sentono esclusi. Che cos’è la “terra di mezzo” se non un limbo, un luogo di passaggio tra la memoria non rimossa dei luoghi d’origine e il sogno di una possibile (per molti clandestini impossibile) integrazione?

Le ragioni di tale scelta forse risiedono in una difficoltà di approccio ad una cultura o a culture di cui si ha non solo una conoscenza ancora troppo approssimativa, ma ancor più una sorta di reticenza verso un mondo che si sente estraneo. Di questo fu così consapevole un cineasta “estremo” ed insieme classico come Rainer Werner Fassbinder che ne La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf-1973) si serve di una storia banale come il matrimonio tra una vecchia tedesca e un giovane maghrebino per far esplodere le contraddizioni di una società ipocrita e perbenista come quella tedesca di fronte al doppio scandalo dell’età e della razza. Un gusto per la provocazione che non si ritrova nei cineasti italiani, inclini piuttosto a condividere questo nuovo soggetto sociale, o se si vuole nuovo sottoproletariato, come una sorta di interlocutore con cui confrontarsi in una società finalmente multietnica e multiculturale.

Nel successivo e incerto film di Matteo Garrone, Ospiti (1998), il regista ritorna, nel primo episodio, al tema dell’immigrazione raccontando con uno stile in presa diretta, tuttavia poco convincente, le vicende di due giovani fratelli albanesi alla ricerca di un’occupazione stabile in una Roma anonima, indifferente, che tuttavia, qualche volta, si rivela disponibile verso di loro, gli ospiti delle società del benessere generalizzato.

L’articolo 2 della Costituzione cui allude il titolo del film di Zaccaro, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”. Zaccaro si “pone in ascolto” della cronaca (come del resto aveva fatto con Il carniere), sapendone cogliere tuttavia non l’effetto di scandalo, né tantomeno il sottinteso ideologico, ma la dimensione umana, ma pur sempre dentro lo schema di una storia narrata.

Il racconto girato in Marocco ha un incedere lento e solenne, mentre quello italiano si accende di lampi improvvisi come la morte sul lavoro del protagonista algerino, oppure l’arrivo della seconda moglie con i bambini dall’Algeria al porto di Genova, nella storica Marittima. Episodi la cui intensità drammatica è sostenuta da uno stile asciutto e rigoroso. Zaccaro gira come un regista maghrebino, con rispetto e pudore verso i personaggi e i luoghi, la loro memoria e il loro destino.

Tra le cronache che hanno segnato la storia dell’immigrazione africana contemporanea vi è quella di Genova, metropoli multietnica, dove nel 1998 per ragioni assolutamente irrilevanti la città storica, culla degli immigrati, esplose in una rivolta che durò tre giorni. Ci fu una repressione da parte delle forze dell’ordine e la città continuò per molto tempo ad essere “militarizzata”. Una pura casualità o un presagio del più recente G8? Forse entrambe le cose. Resta il fatto che nessun regista ha voluto testimoniare l’accaduto. Nessuno ha seguito l’azione fino in fondo, che significa filmare la condizione di vita di intere collettività.

Un cinema che liberi le idee attraverso gesti reali e forme di esistenza umana non mistificata, un cinema che noi tutti sinceramente auspichiamo.

 

[1] Importante figura di intellettuale e di rivoluzionario appartenente ad una famiglia della grande borghesia colombiana, Camilo Torres Restrepo (1929-1966), dopo aver partecipato al Frente Unido, una formazione di sinistra, si unisce il 18 ottobre 1965, dopo aver constatato, deluso, il fallimento dell’ipotesi parlamentare riformista, all’esercito di liberazione nazionale, ponendosi in una prospettiva di lotta armata che egli non riteneva in contraddizione con le sue idee cristiane. Il 17 febbraio 1966, durante uno scontro con i militari, cade ucciso e il suo corpo viene brutalmente offeso.

[2] Prima fra tutte quella di credere che quei modelli di rivoluzione fossero esportabili in un Occidente neocapitalista, in un’Europa e in un’Italia giunta, col 1968, all’affermazione dell’utopica quanto ingenua della “fantasia al potere” e allo stesso tempo al massimo sviluppo del benessere economico. Inoltre, a differenza della guerra civile spagnola che coinvolse, tra i volontari, molti intellettuali non necessariamente spagnoli, le lotte politiche del terzo mondo furono spesso oggetto di idealizzazione (il cosiddetto “sguardo da lontano”) senza che vi fosse la minima partecipazione di intellettuali stranieri, fatta eccezione, forse, per Regis Debray (1941) singolare figura di intellettuale e presunta spia, di romanziere francese, amico del Che nella Cuba di Castro, e a Cesare Zavattini, che fu a L’Avana per tenere delle lezioni di cinema trasmettendo ai giovani cineasti cubani il verbo neorealista, da questi ultimi successivamente rinnegato.

Vale ricordare che nel film di Francesco Maselli Lettera aperta a un giornale della sera (1969) c’è una sequenza in cui alcuni intellettuali discutono sulla necessità di partire volontari per il Vietnam per essere più vicini al governo rivoluzionario discutono piuttosto mostrando poi tutta la propria vacuità.

[3] Nel breve testo di Ciriaco Tiso Cinema poetico-politico (Edizioni Partisan, 1972), si legge a pag. 21 a proposito del rapporto tra cineasti e realtà che <<…. a meno che un italiano che si propone di realizzare un film su una realtà estranea non riesca a trovare, nel filmare, la giusta distanza tra camera e realtà oggettiva in modo che la estraneità esistente tra il regista e la realtà presa in esame venga denunciata dalla camera e diventi il senso primo del cinema>> Ma il Tiso intende allargare il principio a tutto il cinema cosiddetto “politico”, identificando il nodo della “discussione” nel passaggio cruciale dal tema “politico” alla presenza del “racconto”. Più avanti egli afferma che <<un film è politico in ogni caso solo se è cinema e non per il solo fatto di trattare la “politica”.>> Da qui proviene la critica severa formulata nei confronti di opere di autori italiani presenti in questo saggio, accusati di avere tradito lo spirito originario che quelle stesse opere aveva ispirato.

[4] Negli anni settanta, insieme a Bruno Torri, il regista genovese organizzò a Cornigliano, quartire ponentino della città di Genova, per alcune stagioni (1960-1961) un importante Rassegna del Cinema Latinoamericano.

[5] Si tratta di Contras-Urla di guerra dal Nicaragua (Latino-1985) di Haskell Wexler, che mette in scena una presa di coscienza da parte di un giornalista americano della giustezza della causa del movimento sandinista, e Sotto tiro (Under fire-1983) di Roger Spottiswoode dove la rivoluzione in nome di Cesar Augusto Sandino è vista attraverso gli occhi di due reporter yankee, in una prospettiva politica mediata da un improbabile romanticismo. Qualche anno più tardi Ken Loach con La canzone di Carla (Carla’s song-1996) tenta di coniugare l’impegno politico con il melodramma, l’omaggio alla Rivoluzione Sandinista con il confronto tra due differenti società.

Queste opere, alle quali possiamo aggiungere anche Un anno vissuto pericolosamente (Rhe year of living dangerously-1982) di Peter Weir, ambientato in Indonesia, e Benvenuti a Sarajevo (Welcome to Sarajevo-1997) di Michael Winterbottom, appartengono di fatto ad un sottogenere tipicamente americano nel quale la visione e l’interpretazione delle problematiche dei paesi latinoamericani e asiatici passa attraverso lo sguardo solo in apparenza neutro, imparziale del fotoreporter di guerra, figura emblematica in quanto contiene in sé, specularmente, la dinamica dello sguardo e quella dell’azione. I due elementi che lo contrassegnano sono dunque la realtà politica di un determinato paese e la lettura critica che ne viene fatta, sebbene a prevalere sia, in quasi tutti i casi, la dimensione spettacolare.

[6] Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore, Milano 1997. Le altre due biografie uscite recentemente in Italia sono: Pierre Kalfon, Il Che una leggenda del secolo; Feltrinelli, Milano 1998 e John Lee Anderson, Che Guevara. Una vita rivoluzionaria, Baldini e Castoldi, Milano 1996