Critica

IL CRITICO CINEMATOGRAFICO

Il materiale qui presentato (nelle sottopagine di questa sezione) è il frutto di oltre vent’anni di collaborazione con la rivista specializzata di cultura cinematografica “Cinecritica”, organo ufficiale dello SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) www.sncci.it e con quotidiani nazionali.

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CINECRITICA n. 13-14 (gennaio-giugno 1999)

L’AMERICA AMARA DI DENNIS HOPPER

 

CINECRITICA n. 15  (luglio-settembre 1999)

IL CINEMA E IL SOGNO GITANO. ANCHE GLI ZINGARI VANNO IN CIELO

 

CINECRITICA n. 17  (gennaio-marzo 2000)

IL TERRORISMO NEL CINEMA ITALIANO

 

CINECRITICA n. 18-19  (aprile-settembre 2000)

PARADIGMI DELLA VIOLENZA NEL CINEMA AMERICANO. UN’INTERPRETAZIONE IRONICA: U-TURN DI OLIVER STONE

CINECRITICA n. 24  (ottobre-dicembre 2001)

FICTION E UTOPIA: IL CINEMA DELLA CRISI

CINECRITICA n. 25  (gennaio-marzo 2002)

L’IMMAGINE DELL’AMERICA LATINA NEI CINEASTI EUROPEI E AMERICANI

 CINECRITICA n. 26  (aprile-settembre 2002)

SNUFF MOVIE: IL FANTASMA E IL TABU’

 

CINECRITICA n. 28  (ottobre-dicembre 2002)

 VENEZUELA: UN’ESTETICA DELL’ISOLAMENTO

 

CINECRITICA n. 32  (ottobre-dicembre 2003)

L’ALTRA PARTE DEL CIELO: TERZOMONDISMO E CINEMA DELL’IMMIGRAZIONE

 

CINECRITICA n. 33  (gennaio-marzo 2004)

LA CITTA’ DELL’UOMO: IL CINEMA DI ROBERT GUEDIGUIAN

 

CINECRITICA n. 34-35 (aprile-settembre 2004)

LA TRILOGIA DEGLI ZOMBIE DI GEORGE ROMERO

 

CINECRITICA n. 37 ( gennaio-marzo 2005)

ALBERTO SORDI: “IL GRAN TOUR DI UN ITALIANO PICCOLO PICCOLO”

 

CINECRITICA n. 40 ( ottobre-dicembre 2005)

 IL CINEMA DEI DIMENTICATI

 

CINECRITICA n. 44 ( ottobre-dicembre 2006)

 BAMBINI SOTTO LA TENDA DEL CIRCO, PERPLESSI

 

CINECRITICA n. 49 ( gennaio-marzo 2008)

SUDAFRICA: L’APARTHEID SECONDO IL CINEMA

 

CINECRITICA n. 56  ( ottobre-dicembre 2009)

IL NUOVO CINEMA D’ANIMAZIONE TRA POESIA E MERCATO

 

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ALTRI ARTICOLI

 

La linea del ventre: il cinema di Juan José Bigas Luna in Cineforum 381

http://www.cineforum.it/1999/01/01/sommario-368/

 

I film ritrovati di Maurizio Fantoni Minnella sul Quotidiano Liberazione

 

ASSASSIN(S) di Matthieu Kassovitz

Prima di smarrire quella rabbia che noi dicevamo necessaria, fortemente caratterizzante un’opera prima come “L’odio”, e di approdare al thriller d’evasione di “I fiumi di porpora”, il regista e attore francese Matthieu Kassovitz si spinge ben oltre la rappresentazione collettiva dell’ambiente giovanile suburbano, radicandosi invece, in un microdramma quotidiano interamente basato sul rapporto-scontro generazionale tra un giovane balordo e un anziano killer, entrambi ottimamente interpretati dallo stesso Kassovitz e dal grande Michel Serrault.
La storia è piuttosto semplice: un balordo entra nell’appartamento di un anziano signore per derubarlo, ma viene ferito e cade dalla finestra. Dietro l’apparente normalità dell’anziano si nasconde in realtà un killer a pagamento che, sfruttando la debolezza del ragazzo, ladruncolo da strapazzo, tenta di fare di lui un killer, ma non vi riuscirà.
L’educazione alla violenza e al killeraggio che il distinto signore impartisce a colui che potrebbero essere suo figlio, con metodo implacabile, è la più potente metafora, politicamente scorretta, che si potesse scrivere sulla grave, spesso tragica responsabilità che la generazione dei padri avrebbe nei confronti di quella dei propri figli. L’iniziazione o l’apprendistato al mestiere è il terreno necessario attraverso cui il borghese impartisce le proprie regole, che a sua volta ha imparato dopo anni di dura pratica. Insomma, l’anziano rivendica al giovane il fatto che un uomo non è tale senza un lavoro. Se dunque egli vuole crescere, dovrà imparare in fretta il lavoro che l’uomo ha a sua volta ereditato da suo padre, se non vuole essere un fannullone, un disoccupato, un fallito. Il film si sviluppa sul ritmo lento e metodico di alcune “lezioni” su come uccidere un essere umano, poiché ciò che davvero più conta è il modo con cui si fa una determinata cosa rispetto alla natura di quella stessa cosa. E’ necessario inoltre conoscere a fondo gli strumenti del mestiere, ossia il loro funzionamento. I revolver: ve ne sono di molti tipi a seconda delle situazioni e della tipologia fisica delle vittime. Se questa è particolarmente grassa, il calibro dovrà essere necessariamente più grosso. Ogni lavoro richiede pazienza, applicazione e soprattutto conoscenza. La cultura dei vecchi si prende la rivincita sul vuoto delle nuove generazioni. L’uomo insegna che uccidere su commissione è un lavoro come un altro che deve essere svolto con la più totale naturalezza e semplicità. Colpire a morte un altro essere umano significa diventare padrone per quell’istante fatale, della sua stessa vita. Impietoso, lo sguardo di Kassovitz che non risparmia né l’uno né l’altro personaggio: il suo nichilismo è inappellabile. Lo si legge con ancor più chiarezza in successione del racconto. Il giovane commette un errore fatale e il vecchio lo uccide in presenza di un altro ragazzo, poco più di un bambino, pronto a prendere il suo posto. Egli è così bravo da riuscire perfino a fare una strage di professori e di compagni nella sua scuola e, come lo studente nordamericano di Columbine, a farsi saltare il cervello. Che cosa ha insegnato loro quell’anziano distinto e impassibile (osservato con freddezza fin dentro la propria intimità sofferente), che nell’ultima sequenza troviamo placidamente mangiare come un pensionato in una mensa pubblica, mentre la televisione mostra la strage appena compiuta?
Probabilmente nulla. Se fra i tre personaggi, l’unico a rimanere vivo è il vecchio, significa forse che i cattivi maestri, per quanto siano forti, possono anche sbagliare. Tuttavia solo colui che conosce le regole del gioco è destinato a sopravvivere. E gli altri? I figli della televisione, della povertà e dell’ignoranza, non hanno più la rabbia delle banlieu da contrapporre alla disinvolta immoralità del vecchio killer, ma solo il vuoto immenso dell’emulazione, del desiderio, forse, di essere qualcosa, non importa se nascosti dietro quell’apparenza borghese che fà dire di un killer alla gente perbene: quello è un brav’uomo.

COLPO DI SPUGNA di Bertrand Tavernier

Raro e difficile si è sempre rivelato lo sguardo filmico europeo occidentale sull’Africa, ovvero su quel vasto, complesso, quanto straordinario e tragico mondo la cui possibile salvezza, vera utopia del ventesimo secolo, oggi sembra davvero allontanarsi. Le poche opere cinematografiche che ne hanno in qualche modo tentato un resoconto, sia pure in modo parziale (ed è per questo che, più volentieri rimandiamo ai taccuini letterari di viaggio), in realtà sono più utili per comprendere la mentalità europea (spesso fatta di pregiudizi, stupidità e senso di onnipotenza). Vorremmo a tale proposito ricordare quell’autentico capolavoro di ferocia e di humor nero che è appunto “Colpo di spugna”, 1981, del regista francese Bertrand Tavernier, che trae con sufficiente fedeltà dal romanzo omonimo dello scrittore americano “hard-boiled” Jim Thompson. Non si dimentichi tuttavia che in “Come sono buoni i bianchi”,1988, di Marco Ferreri, o “Fata Morgana”, 1971 di Werner Herzog, si definisce, sia pur con grandi differenze stilistiche, una sorta di tragedia fatale: all’incongrua, più spesso devastante presenza dell’occidente nel continente africano, corrisponde un progressivo deterioramento dell’ambiente naturale e dunque umano.
In un villaggio dell’Africa occidentale francofona, il poliziotto bianco del luogo (interpretato da Philippe Noiret ), osserva da lontano alcuni bambini neri che giocano sulla spiaggia. E’ il tramonto. Lo sguardo dell’uomo si riempie di malinconia e di senso d’impotenza. L’uomo pagato per mantenere l’ordine al villaggio, è a sua volta umiliato dal suo superiore e dal più ricco del villaggio (tutti bianchi), per la sua tolleranza e pigrizia. Al tradimento della giovane moglie (Isabelle Huppert) e alla derisione da parte degli altri, egli reagisce in modo sommesso, ma con una logica implacabile che gli consentirà di mettere l’uno contro l’altro fino al tragico epilogo, il suo “colpo di spugna”, quasi una sorta di vendetta purificatrice verso la barbarie dei bianchi, ossia dei suoi simili. Un microcosmo coloniale (siamo intorno alla fine degli anni trenta), funzionale in senso dialettico e sottilmente politico, per una rappresentazione, innanzitutto della stupidità umana, ma anche dell’inutilità della presenza dei bianchi, come stranieri vacui e inutili, incapaci di liberarsi della propria identità di colonizzatori e quindi di considerare l’esistenza e la dignità dell’altro. Il film va dunque letto come un apologo lucidamente grottesco sulla decadenza inesorabile dell’Europa, della sua civiltà e della sua cultura, girato con geometrica precisione e con sguardo implacabile ma tuttavia privo di forzature narrative e visive, o come un jeu de massacre familiare e non solo, che non risparmia nessuno, neppure i personaggi apparentemente innocenti. Poiché in realtà nessuno può dirsi innocente, a partire dallo stesso poliziotto, vittima e carnefice al tempo stesso; padrone di astuzie tanto più perverse proprio in quanto adattabili ad un individuo solo in apparenza innocuo e sottomesso. Egli usa la sottomissione per ribaltarla in cattiveria cinica perciò liberatoria. Nella sequenza finale, come in apertura, egli, ancora una volta, osserva i bambini di colore giocare in riva al mare. Questa volta ha una pistola in mano. Forse vorrebbe scaricarla su di essi per liberarli della loro stessa innocenza e insieme miseria di chi ha già un destino segnato, ma ha un attimo di pietà. Desiste. Nulla più di questo fotogramma saprebbe rendere il profondo senso di solitudine e di inutilità di colui (emblema di una civiltà al tramonto), che per una volta il nonsense dell’esistenza umana si identifica con lo stesso esaurirsi della funzione di quella civiltà dentro l’immenso e inafferrabile continente nero.

 

NON TOCCARE LA DONNA BIANCA  di Marco Ferreri

 Ironico, feroce, dissacrante, apocalittico (mai veramente integrato), il cinema di Marco Ferreri è oggi, una grande icona fuori dal tempo. Ne sentiamo per questo la mancanza. In particolare di un film come “Non toccare la donna bianca”, 1974, interamente girato nel “ventre di Parigi”, Les Halles (i vecchi e gloriosi Mercati Generali), proprio mentre avveniva la loro sistematica distruzione. Ferreri e Rafael Azcona, scegliendo di ambientare nel “grande buco delle colline nere” nel cuore della metropoli europea, il conflitto tra indiani e governo americano, culminante nella disfatta di Little Big Horn, operano una sorta di travestimento: Custer e il Settimo cavalleggeri sono i moderni militari e guerrafondai, al servizio del capitale, mentre gli indiani rappresentano il proletariato e sottoproletariato urbano, espulso dalla città, ormai nelle mani delle grandi società immobiliari. Ciò che si ottiene è un grande effetto di straniamento; i falsi eroi bianchi di questo improbabile western, hanno le facce degli eroi della commedia all’italiana (Tognazzi, Mastroianni, Fabrizi, etc.) e ciò aumenta il senso di horror vacui che pervade il film. La commedia come cattiva coscienza del cinema italiano, la storia americana, demolita attraverso l’esibizione “oscena” dei suoi falsi miti (la cavalleria, Buffalo Bill, la falsa galanteria degli ufficiali, l’umorismo da bettola, il romanticismo da Far West, il sogno del progresso ad ogni costo, e così via). Non è certo casuale che lo stesso Ferreri appaia sulla scena nella parte di un giornalista, ma avrebbe potuto essere anche il regista stesso del film, a riprova del fatto che siamo tutti complici del sistema, compreso il film di cui stiamo parlando. E’ una visione che, forse risparmia solamente gli indiani, sebbene ne evidenzi ugualmente le debolezze.

E poi i capitalisti, gli investitori della ferrovia, i medesimi che oggi investono sulla grande proprietà immobiliare, vengono descritti nel rituale iniziale (con l’investitura di Custer come campione di sterminio) e nel finale (quando, vista la sconfitta, vendono le azioni e poi fuggono su un pallone aerostatico) come affaristi rapaci, privi di scrupoli, in una quanto mai efficace e attuale trasposizione. Chi vuole può anche leggere la battaglia finale come una missione necessaria per il ristabilimento dell’ordine nelle terre del “cavallo d’acciaio” (il treno) e, metaforicamente, nel cuore della “civilization”, da cui si impartiscono gli ordini di non lasciare superstiti.
Mai come in questo film il senso politico di Ferreri si era manifestato con così grande lucidità. Il fatto stesso di girare dentro le rovine della vecchia città del proletariato parigino, fotografata come un canyon da cui nessuno dei “bianchi” uscirà vivo, come in un vero e proprio cul de sac, acuisce in senso metaforico e insieme concreto, l’idea di claustrofobia della storia, come tavola scritta dai vincitori. Tuttavia nella completa visione del vuoto (il buco) da colmare con il gesto politico risolutore, e con la beffarda allegria, Ferreri contempla, disincantato, il riscatto degli umili nello scontro finale come gesto simbolico, utopico, a fronte della definitiva sconfitta di un popolo, di una civiltà e di una cultura. Prima di giungere alla lunga fase della battaglia, descritta con insolita crudeltà, Ferreri si diverte a passare in rassegna il gran circo dell’uomo bianco, con i riti del potere, connessi alla tipica volgarità di corte di coloro che si sentono eternamente vincenti, ma anche taluni siparietti di tono grottesco come la lugubre mostra “etnologica” degli indiani morti i cui corpi svuotati, vengono riempiti di carta da un soldato esperto in imbalsamazione di animali. Oppure come l’esilarante schermaglia tra il cosiddetto “pazzo”, il vero stratega della rivoluzione proletaria, sempre in senso metaforico, considerato pazzo dalla tribù, per via della totale assenza di capigliatura, e l’indiano traditore, servitore dei bianchi, lacchè di Custer (per il quale è scelto il volto improbabile di Ugo Tognazzi). Non resta, dunque, che la sequenza finale, davvero memorabile, in cui il generale Terry, osservando dalla sua postazione privilegiata, il “popolo” che, lentamente e vittorioso, ritorna nel “buco”, terrorizzato esclama: ma quelli sono indiani….! E lo schermo si tinge di rosso…
<<La cosa comica in questo film, afferma lo stesso Ferreri, come nella storia, è che coloro che si credono forti, invece di parlare come noi di genocidio, parlano di “diritto alla conquista”. E diventa veramente comico quando i conquistatori sono schiacciati, perché i conquistatori, loro, parlano di diritto alla resistenza e alla vittoria. E’ quello che è accaduto a Little Big Horn e accadrà, io spero, domani dappertutto. E’ bella la vittoria-la nostra>>.

IL TERRORISTA di Gianfranco De Bosio

Sconosciuto per il grande pubblico e suo tempo boicottato non soltanto dalla distribuzione ma anche da certa ufficialità politica, “Il Terrorista”, 1963, opera prima di Gianfranco De Bosio, viene in occasione della giornata del 25 aprile, riproposto dalla Cineteca italiana di Milano in una proiezione molto partecipata, proprio come un “film ritrovato”. Piace quindi, riproporlo, a nostra volta, in queste pagine, e non soltanto per il suo valore di documento storico-politico, ma per l’effettiva qualità stilistica di un’opera anomala nel panorama italiano dei primi anni sessanta, certamente più ricco di opere inclini alla semplice ricostruzione storica e alla glorificazione della lotta partigiana piuttosto che al ricorso ad una dialettica politica (che si ritroverà invece in molte opere successive), realmente capace di smascherare i facili eroismi alla luce di un più profondo livello di comprensione della storia politica dell’Italia tra fascismo e antifascismo.

In tal senso il film di De Bosio potrebbe a buon titolo essere accostato al film, molto più recente di Luigi Faccini “La città perduta di Sarzana”,1980, proprio per quella necessità didattica (intesa nel senso più nobile e “rosselliniano”), sorretta, nel caso di quest’ultimo, da un robusto impianto narrativo intessuto di azione, quasi fosse un western spezzino, come piacque dire all’autore.
La vicenda umana e politica dell’ingegnere bombarolo (un Gian Maria Volontè che incide per sobrietà e misura), si colloca nel clima di resistenza urbana veneziana alle truppe nazi-fasciste; dunque Venezia, un topos convenzionale che qui viene suggestivamente ribaltato in un bianco e nero livido e stilizzato ed esplorato nei suoi recessi quotidiani e popolari, ossia nei suoi sestieri più poveri (Cannaregio e Castello). Una Venezia mai vista prima e che raramente apparirà tanto più essenziale quanto “invisibile”. <<Capolavoro misconosciuto-scrive Regis Debray nel suo pamphlet “Contro Venezia” – film serio e freddo sulla Resistenza italiana, dove il folklore gondoliero si trasforma in cinema-verità (come Visconti arredatore sontuoso che raggiunge, con mezzi uguali e contrari, l’effetto di una certa spoliazione interiore)>>. Come avverrà più tardi con il Bertolucci di “La strategia del ragno” o di “Il conformista” e con i Taviani di “Allosanfan”, è il tema del tradimento che si trasforma nel demone della storia, il suo motore segreto. De Bosio e Luigi Squarzina (autore dei dialoghi), scelgono il trattamento più arduo e meno consolatorio, quello della smitizzazione dell’eroe attraverso la sua assenza: egli infatti è più pregnante, temuto e a suo modo emblematico quando non è sulla scena, quando si parla costantemente di lui nella coalizione politica clandestina, il CLN (Comitato di liberazione nazionale) che prende le decisioni circa le azioni da compiere. Tuttavia è nel lungo e intenso dialogo con la fidanzata poco prima della morte, che è possibile cogliere la dimensione umana, ancorché politica di questo sovversivo padovano, realmente esistito. Egli è appunto un solitario deciso fino all’ultimo a condurre avanti con il tritolo la sua battaglia di liberazione; un terrorista e non un “bandito”, come venivano abitualmente apostrofati i partigiani dai soldati tedeschi. L’uso, per taluni critici improprio, del sostantivo terrorista, ha ingenuamente spostato l’asse del discorso sul presente italiano, come ebbe a dire, a suo tempo, lo stesso Volontè. In realtà è strettamente di nazi-fascismo che si parla, e il realismo asciutto, stilisticamente severo del film, sta lì a dimostrarlo. Nessuna trasposizione, dunque, nè metaforizzazione, ma il ritratto realisticamente sconsolato, (con la sequenza finale che leva il respiro, del protagonista, ucciso a tradimento proprio mentre cerca di lasciare Venezia per la terraferma) di un’Italia antifascista che lotta per la libertà, tuttavia lacerata da conflitti politici interni, dalla paura della repressione poliziesca, dai dubbi sull’utilità o sull’inutilità della violenza come strumento di lotta politica, (dibattito che peraltro sarà di dolorosa attualità negli anni settanta) e finanche della libertà del singolo in un contesto modellato sulla volontà collettiva. Mentre gli altri discutono di strategie, ma soprattutto di come agire in conformità di ordini dettati altrove e sulla necessità di un compromesso fra le diverse forze politiche del comitato, laiche e cattoliche, liberali, socialiste e comuniste, l’uomo, pur consapevole dell’eventualità di rappresaglie, fa esplodere il comando nazista nel cuore della città lagunare, con l’aiuto di pochi altri. Nessuna assoluzione, né apologia, ma neppure condanna per questo personaggio, di certo più anarchico che comunista. In altre parole è proprio l’assenza di eroismo e di romanticismo a fare di questo film, ingiustamente dimenticato, un momento significativo di quella dialettica filmica che si situa nel difficile e complesso equilibrio tra estetica e politica.

 

LA CASA DEI GIOCHI di David Manet

Il mondo notturno metropolitano ha sempre esercitato un fascino segreto sui cineasti nordamericani. Due esempi su tutti: Taxi driver, 1976 e Fuori orario, 1985, entrambi di Martin Scorsese. Mentre nel primo la notte mescola l’horror vacui quotidiano con la solitudine e la catarsi individuali, nel secondo diventa un’occasione stravagante per una serie di variazioni sul tema della follia e dell’anormalità osservate dal punto di vista di un informatico della “city” di New York. In “La casa dei giochi”, 1987, opera prima del drammaturgo David Mamet, invece, non è tanto la notte ad assumere quel tanto di fascino perverso, quanto il teso clima di sciarada e finanche di jeu de massacro che viene creandosi tra un giocatore di carte, truffatore e baro, e un’avvenente psicanalista, autrice di un best-seller che vuole ad ogni costo difendere un suo giovane paziente minacciato di morte in seguito ad un debito di gioco. Ben presto fra i due si instaura un rapporto di complicità, rivelatore di una duplice natura del personaggio femminile. C’è la psicanalista di successo con i suoi rigidi schemi teorici e con la sua terapia che non scalfisce per niente la superficie dei problemi, dei drammi dei suoi pazienti. Mamet sembra voglia comunicarci una verità fin troppo semplice: non è possibile occuparsi degli altri se prima non si è in grado di conoscere se stessi, ossia la natura più intima. C’è il truffatore, il baro dal fascino seduttivo che dovrebbe incarnare il cosiddetto “lato dell’ombra”, la parte trasgressiva di ciascuno di noi, ma che in realtà sembra piuttosto un personaggio irrigidito nel proprio ruolo, perciò alquanto schematico.
Molto simile ad un’opera ingiustamente dimenticata come “Gli insospettabili”,1972, di Joseph Mankiewicz, (con due straordinari attori, Michael Caine e Lawrence Olivier che si travestono, si scambiano i ruoli, in quello che si potrebbe definire come un autentico gioco al massacro, per quel miscuglio di spirito ludico e di tragedia, lo scherzo iniziale che si trasforma nel suo contrario, il gioco che rivela tutta la sua natura ambigua, come nella finzione del cinema, arrivando perfino a dimostrare che è la realtà stessa a produrre la finzione. Siamo di fronte ad un vero psicodramma di singolare ferocia che spinge fino alle estreme conseguenze il conflitto tra dominio intellettuale e deriva esistenziale, laddove la prima (portatrice anche di un conflitto di classe), si spezza nell’incalzare della azioni che conducono entrambi i personaggi al sovvertimento delle regole sociali. Ma queste possiedono un doppio fondo, il rilievo perverso della finzione. Tutto ciò che la donna vive appunto come trasgressivo e dopotutto anche liberatorio, non è che un’abile, anzi, vertiginosa messinscena, come nel film di Henri-Georges Clouzot, “I diabolici”,1954, posta in atto da colui (il baro) che ha bene in testa ciò che separa la realtà di un assassinio, dal puro divertissement. Così facendo, egli smaschera le sovrastrutture intellettuali della donna che al contrario ha smarrito il senso del limite delle cose, confondendo il gioco con la realtà, smarrendosi nell’ipotesi pratica di una vita nuova in cui non è neppure escluso l’omicidio e al tempo stesso la disciplina che essa rappresenta: la psicanalisi.
La donna è colpevole due volte: la prima, quando, dentro un meccanismo di finzione, essa si scopre assassina, e quando, svelata la finzione e constatato il tradimento da parte dell’uomo (che si rivela coerente proprio nel avere semplicemente fornito alla bella e ricca psicanalista uno spettacolo della propria bravura), lo uccide come un cane. Al gesto liberatorio e definitivo succede il principio dell’autoassoluzione. Per Mamet non vi è dubbio che vi sia una morale del crimine, contrapposta all’ambiguità di certo sapere che della mente è legittimo prigioniero, ma ancor più alla seduzione del male, intimamente connesso alla cosiddetta normalità.

 

LA FOLLIA DI HENRY di Al Hartley

Dal regista indipendente nordamericano Al Hartley (autore di opere interessanti come “Trust-fidati”, 1990, “Uomini semplici”, 1992, “Amateur”,1994), apprendiamo qualcosa di assai prezioso circa l’irrappresentabilità visiva della parola letteraria e di quanto la casualità talvolta sia frutto di predestinazione, nel film “La follia di Henry”, 1997. L’incontro tra un giovane netturbino ed Henry, uno scrittore irregolare e vagabondo, è la chiave di un meccanismo narrativo rivelatore dell’animo umano, ossia di quanto sia ancora possibile assistere al ribaltamento di ruoli tra i personaggi, alla riscoperta di identità represse e finanche di ciò che chiamiamo il “demone della letteratura”.

Il vagabondo, entrando in maniera prorompente e improvvisa nella vita del povero netturbino, si proclama un genio letterario: infatti custodisce gelosamente tre tomi manoscritti contenenti ciò che con orgoglio egli definisce “romanzo della mia vita.” Il nuovo amico che subito non esita ad ospitarlo nella sua cantina, è invece considerato dalla stessa famiglia (madre e sorella), un ritardato. Non lo è. Piuttosto un solitario, un frustrato sessuale cui piace osservare gli altri in atteggiamenti intimi. L’intruso, poco più vecchio di lui, lo spinge maieuticamente a superare la propria timidezza, cimentandosi nell’esercizio della scrittura come sfogo legittimo e naturale. Quando scopre che il netturbino, sebbene carente in senso grammaticale e lessicale, possiede un grandissimo talento visionario perciò trasgressivo, comincia ad educarlo convincendolo perfino a licenziarsi dal lavoro, indegno di una persona dotata di simili capacità. Poi il film si concentra su trame secondarie, approfondendo ritratti familiari e figure di contorno che completano con rara efficacia (cosa che oggi capita a ben pochi cineasti americani), il milieu di una New York periferica, ma non marginale o alienata: il negozio di alimentari gestito da una coppia di cinesi che si trasforma il luogo di recitazione di poesie, le figure del ragazzo semi teppista infatuato di un politico conservatore, candidato alla presidenza della repubblica, o finanche il giovane sacerdote in crisi di vocazione. Per non parlare poi della madre del netturbino, sensibile, perfezionista, tuttavia intimamente disperata fino al suicidio. Tutti personaggi che compongono il quadro, appunto, di quella “little New York”, dei semplici e dei senza potere, cara al regista, il quale se ne serve per definire un ambiente, un climax entro cui sviluppare questo singolare gioco di specchi.
La poesia del netturbino, una volta pubblicata, si rivela uno scandalo. Chi parla di pura pornografia, chi invece di opera geniale. Un editore, consigliatogli da Henry, sebbene convinto si tratti di pornografia, decide di pubblicarla integralmente. E’ un successo ed insieme uno scandalo.
Quando, finalmente, il netturbino potrà leggere a sua volta il manoscritto di Henry, ne sarà invece profondamente deluso. Non ne conosciamo le motivazioni. Chi è veramente Henry? Un nuovo Henry Miller? E la sua opera è veramente ciò che egli afferma con veemenza?
Tutti interrogativi che non prevedono alcuna risposta. Il film procede piuttosto per colpi di scena rivelatori (il matrimonio di Henry con la sorella del netturbino, la notizia di un Nobel inatteso quanto improbabile), mostrando i limiti di un racconto di destini incrociati dove la letteratura, o ciò che ci viene mostrato come tale, altro non è che lo spazio e lo strumento attraverso il quale può avvenire l’incontro tra due personaggi che sembrano provenire da mondi non comunicanti tra loro.
Hartley lascia, infine, lo spettatore nel dubbio che Henry e il suo amico poeta-netturbino siano geni oppure mistificatori. Non rivelando una sola riga delle loro creazioni letterarie, egli rivela altresì la potenza delle immagini filmiche, capaci di mostrare l’intima natura umana, denudata d’ogni compromesso. In altre parole, per il cineasta nordamericano, la scrittura letteraria, succede semmai alle immagini, non le determina, non le produce; essa è dunque lasciata all’arbitrio, alla soggettività dello spettatore, cui viene perciò negata la verità assoluta della poesia, non invece quella degli uomini.
E’ interessante rilevare nell’opera prima di un’altra cineasta indipendente, la newyorkese Jane Spencer, “Piccoli rumori”, 1990, un’analoga sensibilità (forse più raffinata), per il mistero della creazione letteraria e la propria estraneità alla dimensione visiva e inoltre per l’interscambio dei ruoli dei personaggi. Un giovane senza talento che pretende di diventare uno scrittore di successo, scopre per caso un vero talento poetico in un ragazzo handicappato, muto e abbandonato a cui l’altro ruberà i versi ottenendo l’immeritato successo.
A distinguere i due racconti è proprio l’amaro pessimismo di fondo e un clima di indimenticabile, soffusa malinconia di cui la giovane Spencer si rivela descrittrice assai ispirata.

NESSUNA FESTA PER LA MORTE DEL CANE DI SATANA di Reiner Werner Fassbinder

Un Fassbinder al vetriolo, in formato minore rispetto ai grandi “racconti cinematografici” come “Il matrimonio di Maria Braun” o il più letterario “Effi Briest”, che muove dal fatto che la generazione “rivoluzionaria” della Germania del benessere economico ha assistito impassibile e forse un po’ divertita al proprio suicidio, disintegrata dall’inconsistenza politica, dall’estremismo e dalla complicità con il potere del denaro. Non si dimentichi, naturalmente, che vi è in tutto questo un risvolto profondo di tragedia e di verità violate, che la storia ha voluto, accidentalmente situare in un luogo sinistro dal nome Stammhein.

Chi è il signor Kranz? Un poeta, un parassita, un mistificatore, oppure le tre cose insieme?
Egli è, innanzitutto, un tale che non riesce più a scrivere una sola riga; uno a cui la vena creativa si è improvvisamente esaurita, ma anche un profittatore, un parassita, appunto, immerso gelosamente nei suoi deliri pseudo rivoluzionari, circondato da altri come lui, diventati cinici all’indomani del crollo delle speranze e delle utopie rivoluzionarie, in Germania come altrove. Per il cineasta tedesco, terroristi e piccolo borghesi sono accomunati dalla medesima ansia autodistruttiva e al tempo stesso da una curiosa vocazione al comico involontario. Ciò appare fin troppo evidente in un altro film fassbinderiano “La terza generazione, Die dritte generation”,1979, dove il sequestro di un ricco e potente industriale di Berlino, diviene il pretesto per una messinscena di un’ambiguità quasi rocambolesca, dove a nessuno è risparmiata qualsivoglia complicità con il potere, in special modo quello economico della ricca Germania di cui l’opera di Fassbinder è stata l’espressione più alta.

“Satansbraten” e “La terza generazione”, pur con esiti diversi, rivelano, in definitiva, l’umore beffardo e il disincanto di un artista sinceramente radicale, per taluni versi eccessivo e diseguale, che, fedele ad un marxismo ostinatamente brechtiano, non crede, non senza derisione, al presunto comunismo di minoranze borghesi e a quel radicalismo di comodo di chi è vestito e nutrito e protetto dal sistema sociale ed economico capitalistico. L’ossessione che pervade il film è quella, naturalmente, del denaro, unica ragione di esistenza dei personaggi che agiscono e sono agiti da un insopprimibile bisogno di “soldi, soldi, soldi”. La dinamica del racconto, o meglio, dell’antiracconto, si svolge, con pochissime eccezioni, entro i confini di un’abitazione urbana piccolo borghese; tre personaggi: il poeta Kranz, sua moglie Louise e il fratello demente del poeta, che trascorre le sue giornate collezionando mosche morte. “Le mosche scopano”, suole ripetere con soddisfazione. Vittima di un ego smisurato, Kranz, al culmine della frustrazione per l’improvvisa scomparsa dell’ispirazione, uccide un’amica con cui intrattiene un rapporto sado-maso. Un poliziotto indaga sull’omicidio intrufolandosi nella casa e nella vita del poeta. Louise, moglie dal triste aspetto, ma paziente e tollerante, si ammala e muore. Ma prima che questo accada, il film, sin dalle prime sequenze, acquista una tonalità di farsa grottesca, di non immediata lettura, tuttavia assai più politica di quanto possa apparire ad uno sguardo superficiale. Vi è un meccanismo a catena attraverso cui viene per così dire, rivelato il vuoto umano, morale e politico di una generazione che ha fallito nei propri intenti “rivoluzionari”. Quando l’editore si rifiuta di pagare Kranz perché “non ha consegnato nemmeno un rigo”, ecco il poeta diventare lo sfruttato del capitale, ma a sua volta sfruttatore della povera moglie che nasconde il suo delitto, che tollera che l’uomo inviti a casa una giovane prostituta nel vano tentativo di scrivere un libro inchiesta di quelli che si vendono in una settimana. Se il regista tedesco si riserva un personaggio in cui identificarsi nel caos generale, questo è certamente la moglie Louise, la sola, “brechtianamente” legata alla concretezza reale della vita. Il resto è delirio di onnipotenza che ha tre momenti culminanti; primo: Kranz finalmente scrive una poesia ma si accorge (grazie alla moglie e ad un’amica) che è la stessa poesia scritta moltissimi anni prima dal poeta decadente e omosessuale Stefan George; Kranz farà di tutto, anche se invano, per assomigliargli, anzi, per essere Stefan George e nutrire, così il proprio super-io. Secondo: è in visita da Kranz, una sua ammiratrice, una zitella in completa e succube adorazione del poeta. Segno evidente che Kranz, vampirescamente si nutre di vittime indifese e psicologicamente deboli. Egli agisce come un superuomo nietzschiano, tuttavia solo quando mostrerà di provare piacere nell’essere picchiato, la donna lo lascerà ferito e solo sul selciato della strada. Terzo: sentitosi tradito da Kranz, il fratello demente gli spara uccidendolo ma in realtà la pistola è caricata a salve. Egli sviene per la paura ma poi si sveglia: è un altro mondo, è stata tutta una finzione fin dal principio. Ai borghesi parassiti fassbinderiani è concesso solamente di giocare, perfino con la morte fingendo di essere vivi, essendo già “morti”. Essi trasformano la realtà in finzione credendosi veri, pur essendo falsi.. Non vi è dubbio, infine, che siamo di fronte ad uno psicodramma travestito da divertissement, capace di rivelare tutta la mostruosità quotidiana di personaggi senza più un’anima né dignità. In un finale vorticoso dove ogni cosa sembra tornare al suo posto, Louise non c’è più poiché è morta, e finalmente il nuovo libro di Kranz sarà il prodotto di quanto è accaduto ossia di ciò che le immagini hanno ancora la capacità di mostrare, si chiamerà, appunto, “Nessuna festa per la morte del cane di Satana”.

 

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA di Marco Bellocchio

In un’epoca di revisionismo storico e di crisi delle ideologie, anche il cinema italiano, come si è visto di recente, preferisce ripiegare su operazioni nostalgiche sul “mai rimosso politico”, piuttosto che intercettare il presente con quello spirito critico e creativo, talvolta con vero furore ideologico, che fu proprio del cinema e dei cineasti degli anni sessanta-settanta. A noi piace, piuttosto, avviare in questo spazio, una rilettura critica di opere cinematografiche, italiane e straniere, che il tempo, la miopia critica, la distrazione hanno consegnato ad un ingiustificato oblio.
Cominciamo dunque, da “Sbatti il mostro in prima pagina”, 1972, a suo tempo il film di Marco Bellocchio più frainteso e bistrattato, ma al contrario, preziosa testimonianza non solo di un’epoca trascorsa ma di un modo di fare cinema che ieri suscitava la riprovazione teorico-estetico-politica dell’ultrasinistra, ma che oggi, invece, può, forse, essere presa come tentativo, tra i non numerosi, di “lettura”, spettacolare quanto si vuole, di quel presente sincronico, dal quale oggi, si preferirebbe fuggire.
Che effetto fa, oggi, vedere immagini di repertorio come i funerali di Giangiacomo Feltrinelli a Milano, un giovanissimo Ignazio La Russa, allora leader del Fuan, che arringa la folla al grido di “il comunismo non passerà”, montate quasi in forma di prologo (la necessità di definire il milieu di quella che un tempo veniva chiamata “capitale morale”, forse), ad un racconto filmico che attraverso il meccanismo proprio del giallo, intendeva svelare certi meccanismi coercitivi della cosiddetta stampa di destra entro un clima di guerriglia urbana permanente?
La definizione di capitale morale, nel corso del film viene, per così dire, rovesciata in una sequenza di rara potenza simbolica che invano tenteremmo di ritrovare nel cinema italiano attuale: quando viene pronunciata la fatidica frase “andate in pace”, in conclusione della messa funebre per la studentessa uccisa, l’inquadratura successiva mostra montagne di rifiuti trascinati dalla corrente del Naviglio. Nella trasposizione simbolica, i veri “rifiuti”, in realtà sono l’intera classe borghese di quella Milano profondamente reazionaria, presenti in chiesa, capaci di nascondere la verità del delitto, in nome dell’onore, della posizione sociale e finanche della ragion politica. Al regista piacentino interessa innanzitutto definire un tipo umano, non tanto secondo i canoni della commedia italiana, quanto quelli del bestiario politico e sociale che circolava nell’Italia di quegli anni. Con ciò non si vuole affatto sostenere che il personaggio del capo-redattore Bizzanti, interpretato con somma bravura da Gian Maria Volontè, non sia proprio squisitamente cinematografico. Lo è, ma nell’eccezione di una forzatura ideologica che faceva di esso la somma, quasi arcimboldianamente, di tutti gli elementi negativi che la destra poteva di fatto incarnare. Un mostro, insomma, della legalità e del perbenismo borghese, il vero mostro rispetto alla figura del giovane extraparlamentare di sinistra (curiosamente, dell’attore Fabio Garriba, dopo il film si sono perse le tracce), appositamente “costruito” per screditare a scopi elettorali i movimenti dell’ultrasinistra: ma qui Bellocchio e il suo collaboratore Fofi, sanno bene distinguere, pur facendo apertamente il nome de “Il Giornale”, fra la dignità un po’ ingenua del direttore e quella perversa del redattore Bizzanti. Egli è il vero artefice di tutta la messinscena politico ideologico criminale, in cui fanno parte personaggi secondari non esenti da forzature, tuttavia assolutamente efficaci nel tratteggiare non solo il clima cupo e un po’ ossessivo di quella Milano che proprio “morale”, forse non lo è mai stata, ma anche lo “stato sentimentale delle cose”, ossia del senso che ciascuno attribuiva al fare e al vivere politico. A cominciare dalla figura femminile nevrotica dell’anarchica di Brera, Rita Zigai, che tiene il ritratto del Che sulla parete ma che, tradita da un Bizzanti camaleonticamente cinico, non esita a denunciare l’amico che ama perché in realtà gelosa dei “compagni”, passando attraverso il commissario di pubblica sicurezza, incarnazione legittima del questurino “fascista”, fino alla patetiche e mediocri figure della ricca moglie di Bizzanti e soprattutto del bidello frustrato, il vero assassino della studentessa (figura questa decisamente strumentale e quindi di scarso rilievo), cui viene attribuito il cotè dell’uomo-massa che prende per verità qualsiasi menzogna venga scritta sul giornale. E poi, come dice ad un certo punto la Zigai, ci sono i compagni: quelli che vorrebbero linciare il giovane onesto e ingenuo cronista de “Il Giornale”, tale Roveda, mandato apposta nel covo dei compagni, appunto, per montare il caso del giornalista picchiato durante una conferenza stampa, o quelli che invece difendono il loro compagno accusato ingiustamente dichiarando il falso poiché in fondo sanno che è innocente. Quelli che attaccano i manifesti di nascosto al mattino, davanti alle fabbriche. Quelli insomma, che forse non rivedremo mai più. E alla domanda iniziale, viene, infine, di rispondere che se quelle immagini “vere” ci appaiono un po’ opache e slegate, fluttuanti nella memoria di quei giorni, non altrettanto ci sembra invece la volontà e l’intelligenza di creare un personaggio che prefiguri, pur nel proprio concentrato di veridicità e di grottesco attoriale, il tiranno mediatico prossimo a venire.
In questa furiosa eppur passionale requisitoria, a suo tempo ingiustamente maltrattata da buona parte della critica, che mescola disinvoltamente toni realistici a toni grotteschi, scorgiamo invece i tratti profetici di un’Italia capace da sempre di produrre mostri, che pur appartenendo di fatto all’immaginario cinematografico, ci inducono a pensare che la realtà ha, ancora una volta e di molto, superato la fantasia.