IL CINEMA DEI DIMENTICATI

CINECRITICA n. 40 ( ottobre-dicembre 2005)
IL CINEMA DEI DIMENTICATI

Mentre mi accingo a penetrare nella Rocinha, la favela più grande del Brasile e di tutta l’America latina in compagnia di un amico italiano che lì dentro ha appena iniziato la lavorazione di un documentario, mi rendo effettivamente conto che la parola “favela” è la traduzione per così dire sudamericana di “borgata”, parola densa di significato sociale e altresì cinematografico. La lettura attenta e appassionata dei primi romanzi pasoliniani “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita” ma ancor più la visione di opere fondamentali come “Accattone” e in maniera minore “Mamma Roma”, o tutto il cinema italiano buono o cattivo che ne è seguito, ci ha abituati a pensare alla borgata romana non come un semplice prolungamento dell’abnorme sviluppo metropolitano ma un microcosmo autonomo, secondo gli urbanisti, metastasi del territorio, dotata di proprie leggi, di un codice di comportamento e comunque di una dimensione umana che deve quotidianamente confrontarsi con condizioni materiali tali da comprometterne qualsiasi dignità. Non dobbiamo inoltre dimenticare che Pasolini è stato il profeta e il poeta delle borgate; profeta perché ne anticipò i segni della “corruzione” morale linguistica e comportamentale col sopraggiungere dell’era del consumismo. Poeta perché provò con grande sincerità e onestà intellettuale a idealizzarne taluni motivi essenziali, primo fra tutti la purezza non ancora contaminata dell’adolescente che era figlio di un mondo pastorale, dunque pre-moderno, ma che tuttavia aspirava ad essere qualcos’altro, lasciando visibile una sorta di spazio aperto, di limbo senza confini dove secondo il poeta di Casarsa vi erano già scritti i segni di una possibile liberazione. Nel 1969, nel corso di un’intervista con Giuseppe Cardillo, a quel tempo direttore dell’Istituto di Cultura di New York, egli dichiarava: “sono arrivato in questo enorme calderone che è la periferia romana. Questo ha causato in me un trauma umano, sentimentale, direi di nervi, proprio. L’apparizione del sottoproletariato romano coi suoi stracci, col suo fango, con la sua polvere, le sue bestemmie, il suo cinismo, il suo cattolicesimo sconosciuto, il suo paganesimo stoico…è stato per me un vero e proprio trauma, un’apparizione traumatica che mi ha sconvolto” (1)

Da quel trauma”provinciale” nasceva tuttavia quella poetica tanto imitata quanto realmente inimitabile che fece delle borgate romane il luogo dove l’inferno e il paradiso si mescolano formando una sorta di tragica bellezza. Del tutto estraneo a questa visione, per così dire “angelicale”, Ettore Scola, in “Brutti sporchi e cattivi” (1976), diede della borgata romana un ritratto che se per taluni versi vorrebbe essere pienamente ancorato alla realtà, d’altro canto e in contraddizione con la stessa volontà di rappresentazione di una specifica realtà sociale, perviene ad una sorta di miserabilismo che la vis comico-cinica di Nino Manfredi connota di sfumature di commedia nera dell’assurdo.

Per Scola nella borgata non ci sono che brutti sporchi e cattivi, che la società civile ha deciso di dimenticare o di avversare. Essa dunque va cancellata e i suoi abitanti al più presto integrati nel sistema; ma come si può immaginare l’integrazione per un personaggio come il Nino Manfredi del film?

Se l’operazione pasoliniana per taluni versi rivela delle analogie con il realismo poetico della coppia Carnè-Prevert nella rappresentazione della banlieu parigina degli anni trenta, proprio nell’idealizzazione dei suoi “eroi” tormentati e solitari, è solamente con il capolavoro Buñueliano “Los olvidados-I figli della violenza” (1950), che per la prima volta, dramma sociale, crudeltà e innocenza, giungono ad un livello di coerenza e di realismo mai più eguagliati.

I figli della violenza sono sempre i figli della favela e per conseguenza non della metropoli ma delle sue degenerazioni terminali, dove il sistema politico ed economico di una nazione mostra tutta la propria inadeguatezza e cattiva coscienza. Se osserviamo a distanza il film che il grande regista spagnolo ebbe coraggiosamente a definire “di lotta politica”, non possiamo smettere di ammirare non solo la potenza delle immagini che ancora sanno incidere nella coscienza dello spettatore, ma anche la capacità di situare la violenza di cui i suoi “ragazzi” sono artefici e vittime al tempo stesso, in quel territorio d’ombra sospeso fra la poesia e la pietà, l’indignazione e la delicatezza.

2. Chi forse ha saputo far sua la lezione bunueliana, molti anni dopo, ossia in un tempo in cui la società latinoamericana si è fatta più spietata e la repressione senza dubbio più esplicita è il brasiliano, ma di origine argentina, Hector Babenco nella sua seconda opera “Pixote, la legge del più debole, 1980, tratto dal romanzo di Josè Louzeiro, “Infancia dos mortos”. La legge del più debole è quell’insieme di regole di comportamento in atto nel microcosmo della delinquenza giovanile o infantile che ciascuno è tenuto a rispettare, pena la stessa vita. Si tratta dunque di una rigida, ma più spesso sfumata contrapposizione di codici, di forme di violenza verso cui Babenco non assume un punto di vista né moralistico, né tantomeno sociologico. I je-accuse politici di certo cinema francese o italiano non gli interessano o quanto meno non chiariscono o esauriscono la complessità della natura umana e delle sue reazioni.

Il suo è essenzialmente uno sguardo fenomenologico, semidocumentaristico sul cosiddetto male sociale che imperversa nelle città dell’America latina. Pixote non è un attore ma un bambino preso dalla strada al pari degli altri compagni di riformatorio. Il carattere semi-documentaristico del film non impedisce tuttavia che vi sia anche un segno narrativo ben marcato nel passaggio dalla condizione di segregazione nel riformatorio alla fuga verso la libertà. E’ in questa seconda parte che il ritratto di Pixote e dei suoi amici diviene più spietato: doppio ritratto di un bambino cresciuto tra la spazzatura che cerca ancora il seno materno tra le braccia di una prostituta e di un piccolo assassino diventato improvvisamente adulto.

Lo sguardo di Babenco, autore della sceneggiatura, non indulge in pietismi, lasciando piuttosto al suo personaggio tutta la libertà di essere ciò che è.

Il destino di Pixote, che nell’inquadratura finale vediamo camminare ormai solo verso il proprio destino di “menino de rua”, coincide in senso dialetticamente opposto con quello del piccolo protagonista del film argentino, vincitore di diversi premi “Cronica de un niño solo”, 1965 di Leonardo Favio, a quel tempo attore e allievo di Leopoldo Torre Nillson, che nell’ultima inquadratura, conclude la sua fuga dal riformatorio facendosi nuovamente catturare da una guardia per colpa di un asino che ci rammenta il “Platero “del poeta spagnolo Juan Ramon Jimenez (2)

Film poetico e pressoché sconosciuto in Italia, possiede la semplicità elegiaca delle opere che si impongono più per il linguaggio scabro e il ritmo di una lentezza quasi contemplativa, che per durezza e spettacolarità narrative.

3. Da Spaccanapoli ai Quartieri Spagnoli fino a Scampia e ai comuni sulla linea metropolitana Circumvesuviana, si estende per così dire l’immensa ed eterogenea favela con i giovani e giovanissimi favelados partenopei, contesi fra camorra, sottosviluppo e violenza come in una qualsiasi metropoli latinoamericana.

Nell’intercettare la complessità umana e sociale di tale realtà, il cinema italiano si è trovato ancora una volta di fronte al solito dilemma estetico formale e finanche narrativo: documento o narrazione? Fiction o pura registrazione di ciò che veramente accade nella città più latinoamericana d’Italia?

Nessuno scelta di spettacolarizzazione della violenza, della miseria e dell’infanzia nelle tre opere che più ne rappresentano la risposta visiva, Baby gang, 1992 di Salvatore Piscicelli, Vito e gli altri, 1991 di Antonio Capuano e Certi bambini, 2003 di Andrea e Antonio Frazzi, tratto dall’omonimo romanzo di Diego De Silva (3), piuttosto il tentativo di operare una scelta realistica di fondo, senza concessioni ma tuttavia tenendo ben conto di talune esigenze del racconto, ossia della necessità di narrare delle storie quotidiane lasciando inalterato il principio di realtà.

Il film di Piscicelli si apre con alcune inquadrature fisse sul suburbio napoletano della vesuviana E’ notte. Poi il primo piano di un bambino biondo di appena dieci anni e successivamente un campo lungo che mostra il bambino come risucchiato dal paesaggio urbano che è luogo di formazione e di crescita.

Quella dell’undicenne Luca, ingenuo e innocente come il monello di Chaplin, è un breve viaggio quotidiano dentro la città, fatto d’incontri e di scoperte, compiuto per aiutare il fratello maggiore in crisi d’astinenza. Le figure dei genitori sono quasi del tutto assenti e i destini individuali (morte, violenza e solitudine) che si affacciano in ogni momento della vicenda, diventano “oggetti” ingombranti anzichè modelli di comportamento. Semplice storia raccolta tra molte altre storie “di strada”, essa non ha nulla di esemplare se non il fatto di appartenere ad un microcosmo tanto più tragico quanto prodotto di una società sempre più basata sulla disuguaglianza e al tempo stesso sul potere delle immagini, ma non quelle del cinema, che hanno perso nel tempo, non solo il loro potere di scandalo ma anche la peculiarità di formare le coscienze.

4. La “Città di Dio” è una favela di Rio tra le più violente e periferiche. Favela di pianura che riproduce una griglia ortogonale, monotona e implacabile. Ciò non impedisce che le case continuino a crescere caoticamente le une sulle altre.

E’ lo scenario tra il familiare e l’allucinante del film di Fernando Meirelles, allievo di Walter Salles, “La città di Dio”, 2003, anch’esso ispirato ad un romanzo, Cidade de Deus, appunto, di Paulo Lins (4). Familiare perché riproduce un ambiente umano compresso che rammenta gli antichi nuclei urbani superaffollati d’Europa; allucinante, dal momento che esso, accanto alla normalità quotidiana riproduce una pratica della violenza, segno della stessa evoluzione della favela che in certe ore pomeridiane si spopola trasformandosi in una città fantasma del vecchio West.

Partiamo dall’inquadratura finale, tanto estrema quanto emblematica non di un particolare stile registico o di una poetica, ma di un semplice paradosso sociale e umano: se il mondo degli adulti esplode poiché gli uomini si ammazzano tra di loro, saranno i bambini, i meninos da rua, i soli veri padroni della favela, spietate caricature dei loro padri. Fortemente semplificato rispetto alla scrittura letteraria da cui proviene, il film rivela i limiti del suo autore non tanto nell’interessante struttura ellittica, quanto in uno stile troppo levigato ed elegante rispetto alla crudezza del contesto e delle situazioni. Inoltre l’affidare ad un personaggio “buono” la speranza di riscatto sociale, equivale a dire (secondo un tipico stereotipo nordamericano) che senza la “forza del singolo” non esiste civiltà e, forse, neppure cinema.

“Certi bambini” a sua volta, si chiude con il battesimo della violenza del giovanissimo protagonista che consiste nell’uccisione un uomo. I bambini hanno sostituito gli adulti nell’esercizio della violenza di cui, loro malgrado, sono i destinatari. Ciò che tuttavia fa sembrare questo ancor più terribile è la sequenza finale in cui il bambino dismette i panni di assassino e si unisce ad un gruppo di ragazzini intenti a giocare una partita di calcio.

Sull’unità temporale di un viaggio in metropolitana che lo conduce fino al compimento dell’azione criminale, si sgrana come in un rosario la vita di un ragazzino qualsiasi della periferia napoletana, conteso da buoni e cattivi maestri; sceglierà i secondi dopo aver visto la morte negli occhi e constatato la fragilità dei rapporti umani positivi.

Nel film di Capuano c’è invece la messa in atto della teoria zavattiniana del pedinamento con la cinecamera che insiste sulla figura drammatica di Vito, ragazzino napoletano in prestito alla camorra, mai arretrando nemmeno di fronte alle situazioni più crude, a conferma di uno stile asciutto e rigoroso che ancora una volta guarda al docudrama non come ibrido stilistico ma come ipotesi di racconto e al tempo stesso di indagine sulla realtà. In “Luna rossa”, 2000, film peraltro ingiustamente sottovalutato, la tipica violenza camorristica di strada, viene per così dire, riassorbita in una dimensione familiare, ”da camera” diventando così tragedia shakespeariana, fatta di tutto, il kitsch grottesco dei suoi protagonisti, e che scopre il proprio giudice assoluto, nello sguardo implacabile e beffardo di un adolescente.

5. Non è casuale, forse, che almeno tre dei quattro film sopracitati, ad eccezione di Baby gang, abbiano un’origine letteraria.

Segno, forse della volontà di lasciare agli scrittori la prerogativa della scoperta della favela e dei suoi “eroi”, mentre al cinema è lasciato, infine, il ruolo di trascrittore e visualizzatore di esperienze altre che lo precedono sul filo sottile e complesso della scrittura letteraria che, come si sa, concede maggior libertà e fantasia all’autore.

Questo avviene in un momento delicato della storia della partenopea che sembra essere di nuovo precipitata, dopo gli anni della cosiddetta “rinascenza” con la giunta Bassolino, in un “teatro di guerra” ancor più inquietante e minaccioso laddove veda come protagonisti quasi assoluti, bambini delle periferie, dai tredici ai quindici anni, in lotta con il resto del mondo.

Ci piace pensare che il cinema, come già fin dagli anni sessanta, aveva dimostrato di saper fare Francesco Rosi con “Le mani sulla città”, debba intercettare, con soggetti originali e con forza espressiva, la realtà napoletana proprio nel suo procedere verso l’abisso, ossia, ciò che comunemente chiamiamo, declino progressivo della speranza.

Tuttavia ciò che davvero continua a colpire in queste opere è la capacità se non proprio la vocazione, con il loro dichiarato antipsicologismo, di mettere in discussione modelli sociologici, psicologici e pedagogici rivelatisi sino ad ora inadeguati a risolvere (si badi bene, non a comprendere), il problema della deriva violenta e criminale in seno al mondo giovanile urbane e delle secche di sottosviluppo sociale e culturale di un mondo globalizzato.

Note

1. Giuseppe Cardillo, Pier Paolo Pasolini le borgate romane mi sembrarono un sogno, La Repubblica, sabato 8 ottobre 2005

2. Juan Ramon Jimenez, Platero y yo, Nuova Accademia, Milano 1959

3.Paulo Lins, La città di Dio, trad. di Andrea Ciacchi, Einaudi, Torino 1999

4.Diego De Silva, Certi bambini, Einaudi, Torino 2000